giovedì 30 agosto 2007

Autonomia Monetaria Siciliana

Il movimento politico L’Altra Sicilia, al servizio dei Siciliani della diaspora, fa una proposta clamorosa: sganciare la Sicilia dall’ Euro – che tanto serve solo a fare arricchire gli euro-signori della banca e della finanza – per dotarla di una moneta senza debito e senza interesse, il triskele. In questo modo, la sovranità monetaria – usurpata prima da Torino, con l’introduzione forzosa della Lira, e poi da Bruxelles, con l’introduzione fraudolenta dell’Euro – potrà tornare ai suoi leggittimi proprietari, ovverosia al Popolo Siciliano. Riportiamo di seguito il post del 21 agosto 2007 con il quale è stata lanciata la brillante idea sul sito de L’ Altra Sicilia.


Autonomia Monetaria Siciliana

La Sicilia, benchè popolata tanto quanto Norvegia e Finlandia, subisce un sottosviluppo secolare, largamente dovuto all’insufficienza di denaro liquido circolante. Liquido che, sempre proveniente “da fuori”, non è mai stato emesso, né lo è tuttora, per sostenerne l’economia. L’Altra Sicilia propone quindi l’autonomia monetaria siciliana con il triskele, Moneta Franca siciliana.

“Franca” vuol dire libera da debito e da interesse, quindi con esclusiva funzione di mezzo di scambio e non di portavalori, né nello spazio né nel tempo.

Il triskele servirà da buono lavoro, esclusivo al di qua dello Stretto. Circolerà insieme all’euro, questo con funzioni di divisa “estera” e quella di circolante domestico. Una imposta del 2% trimestrale (8% annuale) sui buoni da 1, 5 e 10 triskele ne assicurerà la circolazione rapida, cioè la capacità di cambiar di mano 400-500 volte in un anno, così muovendo beni e servizi per un valore 400-500 volte quello nominale dei buoni.

La disoccupazione diminuirà in proporzione diretta alla sua libera accettazione, creando una offerta di lavoro capace di assorbire il milione e rotti di siciliani disoccupati, che non lo saranno più.

Come funziona la MF in pratica?

Per sanare i danni del terremoto del Belice del 1968, vennero “stanziati” 12 mila miliardi di lire (circa 6 miliardi di euro), dimostratisi incapaci di completarne la ricostruzione in 40 anni. Lo hanno impedito i sottoprodotti dell’usura: sprechi, peculato, malversazione, incompetenza, prurito di novità, immobilità burosaurica, cattive leggi, pizzi, corruzione, eccetera.

È deprimente che la popolazione della Valle del Belice sia rimasta praticamente quella che era 40 anni fa. Ma non è tutto.

Non fu lo Stato Italiano ad emettere quei 12 mila miliardi. Fu il sistema bancario, con cui lo Stato contrasse un debito che lo costringe tutt’ora a tassare e tartassare i cittadini per pagarne gli interessi. Cosa sarebbe successo invece con una lira franca?

I Comuni dei paesi colpiti l’avrebbero emessa a terremoto finito, in ragione, diciamo, di 1000 lire x 100 000 persone = 100 milioni. Circolando 400 volte in un anno, quei 100 milioni avrebbero finanziato lavoro e materiali locali per 40 miliardi. In due anni, gli stessi 100 milioni, continuando a circolare, avrebbero finanziato 80 miliardi di ricostruzione. Il tutto senza indebitare nessuno, e ricostruendo gli abitati dov’erano e com’erano, invece di farli deturpare da “furasteri” entusiasti ma su lunghezza d’onda culturale diversa. Ogni famiglia avrebbe ricostruito la propria abitazione secondo desideri propri e canoni tradizionali. E non vi sarebbe stata emigrazione.

La MF, libera da debito e da interesse com’è, non prevede “fondi”, “riduzione di costi”, “analisi costi-benefici”, “risparmi di tempo”, e altri termini usurai ai quali siamo tanto abituati da non riflettere quanto siano assurdi. Il costo di un’opera viene misurato in ore di lavoro, non in unità di MF. Qualsiasi pagamento avviene in contanti e alla consegna, senza scadenze di “fine mese”. Il risparmio avviene esclusivamente depositando MF in istituzioni pubbliche, che la riimmettono immediatamente nel circolo sanguigno dell’economia reale. Non vi si può speculare su.

Con il triskele qui proposto la Sicilia potrà non solo occupare i suoi “schiffarati”, ma anche far rientrare i suoi figli emigrati, nonchè intraprendere opere come: raddoppiare la Messina–Fiumetorto (anche per TVA), costruire un tunnel galleggiante sommerso Messina - Villa, “addrizzari” la Palermo-Agrigento, allestire un centro di ricerca nel vecchio stabilimento Fiat di Termini, rimboschire l’isola, a cominciare dai cocuzzoli brulli disboscati secoli fa, modificare la Circumetnea con trazione a vapore per attirare i turisti patiti di quella tecnologia, sfruttare la pendenza dei corsi d’acqua per generare energia elettrica democraticamente ed invisibilmente, allestire impianti di desalinizzazione lungo le coste e nelle isole minori, costruire parcheggi sotterranei e metro nelle città, riattivare i “qanat” idrici di Palermo costruiti dagli Arabi un millennio fa, interrare la “sopraelevata” bloccata dai Verdi, produrre concimi organici come servizio pubblico per migliorare la qualità dei cibi e la resistenza immunitaria dei siciliani, ecc. Il limite superiore del da fare verrà determinato dalla disponibilità di manodopera, non dal triskele.

Le condizioni sine quibus non del successo sono esclusivamente l’unione di intenti e la buona volontà dei siciliani. L’Altra Sicilia si augura che non manchino né l’una né l’altra.

Silvano Borruso, L’Altra Sicilia - Kenya


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lunedì 27 agosto 2007

Il democristiano Lombardo ritorna all'ovile

L’Altra Sicilia colpisce ancora! Anche stavolta è riuscita a profetizzare i movimenti di palazzo. Soprattutto se al centro vi sono i “finti autonomisti”, o i “veri democristiani” a seconda dei punti di vista. Riportiamo di seguito il comunicato stampa del 24 agosto 2007 con cui L’Altra Sicilia denuncia il falso autonomismo di Raffaele Lombardo alla luce della ritrovata amicizia tra l’ UDC e il MPA.


Il democristiano Lombardo ritorna all'ovile

Apprendiamo dal sito del Mpa dell'intesa Mpa-Udc che di fatto riporta Raffaele Lombardo – con il suo uccello bianco dell'autonomia – nella casa natale da cui ha mosso i primi passi e in cui è diventato l'uomo politico di successo e di potere che conosciamo e che ormai non incanta più nessuno.

Avevamo fin da subito nutrito forti dubbi sulla conversione all'autonomismo di questo strano personaggio, espressione da sempre del potere coloniale italiano nell'Isola.

Convinti come siamo che la forma sia sostanza, vorremmo soffermarci sulle parole in stile "ascaro-siciliano" del comunicato stampa congiunto Mpa-Udc.

In esso si legge: "Lungo e costruttivo confronto tra il Presidente della Regione e vicesegretario nazionale dell'Udc Totò Cuffaro e il presidente dell'Unione Regionale delle Province Siciliane e presidente nazionale dell'Mpa Raffaele Lombardo [...]".

Un tripudio di titoli e posizioni di potere per nascondere, forse anche inconsciamente, la non alta levatura dei due sul piano delle capacità tecniche e politiche. Interessante in particolare il titolo di Lombardo: presidente dell'Unione Regionale delle Province Siciliane. Essere presidenti di un'unione di province, che per lo Statuto di Autonomia Siciliana non dovrebbero neanche esistere, la dice lunga sull'amore di Raffaele Lombardo per l'autonomia siciliana!

Ma è continuando che si tocca l'apice dell'ipocrisia: "[...] si è convenuto sulla opportunità di avviare un dialogo più serrato che, si è auspicato, possa sfociare in una forte collaborazione tra le due formazioni politiche, finalizzata allo sviluppo della Sicilia e imperniata sui principi della solidarietà, della partecipazione democratica e della autonomia siciliana [...]".

L'UdC e il Mpa, eredi storici di quella Democrazia Cristiana (poco democratica e per niente Cristiana) che in 60 anni di quasi ininterrotto potere ha fatto a pezzi la Nostra Patria, ora si preoccuperebbero di "sviluppare" la Sicilia dopo averla sottosviluppata e asservita agli interessi italiani? Davvero ridicolo poi il richiamo ai principi su cui dovrebbe essere imperniata la collaborazione tra queste due costole della balena bianca: "solidarietà", "partecipazione democratica" e "autonomia siciliana" (sic!).

Per quanto dovremo ancora leggere comunicati di regime come questo, che ha tutto il sapore della beffa e della sfrontatezza?

Questi uomini del palazzo non hanno bisogno di comunicati stampa del genere per mettere in atto principi così nobili. Se lo volessero, potrebbero applicarli domani stesso, senza intese e senza inutili trionfalismi, rendendo così giustizia al Popolo Siciliano di 150 anni di inutili sofferenze, lutti, privazioni e umiliazioni.

Nel comunicato congiunto seguono poi una serie di temi all'ordine del giorno dell'agenda politica regionale.

Ci fosse tra questi quello più importante, quello che da solo risolverebbe tutti i nostri problemi, ovverosia l'applicazione immediata e totale dello Statuto di Autonomia Siciliana! Ché la nostra Automia non è un principio cui ispirare le manovre di palazzo, ma è La Nostra Sacra Carta Costituzionale, la cui applicazione integrale garantirebbe a tutti i Siciliani un presente ben diverso dalla desolazione odierna offerta da Cuffaro e Lombardo.

Il ritorno del leader del Mpa all'ovile conferma tutti i nostri sospetti sulla strana conversione di questo soggetto all'autonomismo, dopo una vita spesa dentro i giochi di potere democristiani.

La verità, che noi abbiamo smascherato in tempi non sospetti, è che Lombardo ha captato un nascente movimento di ribellione e di crescente consapevolezza di se del Popolo Siciliano e delle sue legittime aspirazioni all'autonomia.

Approfittando di dissapori nati all'interno dell'UdC, ne è prima uscito per attirare a se quanti più consensi possibili dal mondo autonomista. E adesso vi rientra lentamente con un'intesa ai vertici della ex balena bianca regionale... l'uccello bianco ritorna alla balena bianca!

Bentornato a casa Raffaele – figliol prodigo – Lombardo!

Ufficio stampa

L'Altra Sicilia – al servizio della Sicilia e dei Siciliani della diaspora


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domenica 19 agosto 2007

Perché la Sicilia è povera

Riportiamo un intervento de L'Altra Sicilia a proposito della minacciata rivolta fiscale da parte della Lega Nord. L'intervento getta una luce sulle ragioni della povertà della Sicilia contemporanea.


Ancora sulla rivolta fiscale

Palermo 18 agosto 2007

L'Altra Sicilia torna ancora sulla "millantata" rivolta fiscale di Bossi che si rivelerà per quel che è: una boutade estiva, per fare parlare i telegiornali di sé, e nulla più.

Ripetiamo le ragioni per cui forse i Siciliani avrebbero più di altri il diritto di esercitare una simile sollevazione pacifica, rifiutandosi di mantenere un sistema Italia usuraio e vessatorio.

Abbiamo detto la volta scorsa dello stupro delle norme statutarie che ci attribuiscono diritti tributari quasi da stato sovrano e che 61 anni di governi ascari si sono guardati dall'applicare o dal richiederne l'applicazione.

Ma la Sicilia è povera. E' vero, è povera. Ma i Siciliani non sanno perché.

Pensano che sia colpa loro, glielo inculcano in tutti i modi, e quindi l'unica soluzione è quella di accontentarsi degli avanzi che l'Italia, questa potenza in declino, si degnerà di spedire nelle sue colonie interne.

Vogliamo questa volta tentare di aprire gli occhi su alcuni dei mille balzelli, occulti, che succhiano sangue dalla nostra terra per mandarlo al continente.

Ebbene, cari fratelli, vi sarà capitato spesso di non arrivare neanche a fine mese con il vostro lavoro, eppure "vi siete ammazzati di lavoro", ...sapete perché "non si ci arriva più"?

Facciamo due conti.

1) Cominciamo dalle assicurazioni obbligatorie sulla RC Auto. Gravate di tasse e contributi sanitari, non sono veri prezzi ma tariffe insosteinibili dettate da un cartello di aziende che ha i suoi sostenitori su entrambi i versanti dei partiti italiani. Le tariffe praticate al sud e in Sicilia sono discriminatorie. Ci sono (tolleratissime) molte frodi che ... finiamo per pagare noi, con gli interessi! I tentativi della Regione di attivare un sistema siciliano di aziende assicurative, anni fa, è stato ...fulminato sul nascere. La solita Corte Suprema ha dato la sua interpretazione ..."abrogativa" per dire che in materia la Sicilia non ha competenza. Figuriamoci! Le assicurazioni, tutte, fondi pensione compresi, sono balzelli che dall'isola vanno verso il Continente, aiutati peraltro dalla pubblicità a senso unico dei media italiani. Siciliani! Tenetevi stretto, almeno finché potete, il vostro TFR. Non vi fate fregare. Quando costruiremo nostre mutue assicuratrici popolari per evitare queste tasse occulte? mah!

2)L'ICI e la Tarsu. Tributi comunali, si dirà, che male c'è? Nulla, se non fosse che colpiscono anche prime case che non siano regge... La prima casa non produce alcun reddito, spesso è "scuttata" da una vita di mutui. Ma lo Stato e la Regione tagliano i fondi ai Comuni che non hanno altra scelta che colpire il diritto all'abitazione. Altro che fiscalità bizantina! Vogliamo l'Impero Bizantino! Ce la passavamo meglio. Poi la Tarsu è sproporzionata, assurda, se rapportata al costo dello smaltimento dei rifiuti urbani, irrazionale, regressiva. Ma tant'è. Dobbiamo pagarla e basta. E chi non la paga, giù con i pignoramenti...

3)Il Canone Rai, il più assurdo dei tributi. Non legato alla capacità contributiva (come vorrebbe la Costituzione), dovuto ad una società privata (roba da feudalesimo), non previsto come tributo erariale dal nostro Statuto. E' un vero "pizzo" da pagare annualmente, che serve ai Siciliani per farsi "italianizzare" dalla TV di Stato, per acquistare meglio i prodotti padani, per appassionarsi alla politica teatrino o ai polpettoni sul risorgimento e sulla "fantasia" italiana (fantasia nel "fotterci" meglio), per fare il lavaggio di cervello ai Siciliani. La TV di stato che sceglie di non parlare mai di Sicilia e dei suoi eventi (locali, per definizione)se non per parlare di delitti e di non produrre niente in Sicilia ma di farci appassionare ad esempio al Palio di Siena. Puah!

4)Altre tasse occulte le paghiamo sotto forma di "bollette" nei servizi pubblici essenziali. La luce più cara d'Europa (la borsa energetica di Palermo) per un paese esportatore netto d'energia. Anche lì dobbiamo mantenere il monopolista italiano, per non parlare degli immancabili tributi indiretti sull'energia, a loro volta gravati di IVA (tasse sulle tasse). Nei telefoni, dove la concorrenza è finta, non va meglio. Le antiche e floride compagnie elettriche siciliane sono un ricordo per gli anziani. I tentativi di costituire compagnie telefoniche siciliane...fulminati sul nascere, ci mancherebbe. Nel gas e nell'acqua va un po' meglio, ma...ci stiamo attrezzando. A proposito, ricordatevi di passare al fornitore italiano che per due anni vi tratta meglio del fornitore locale (il tempo di farlo chiudere) e poi vedrete...

5) Le "tasse" non dichiarate come tali più pesanti sono però quelli degli interessi bancari. Fra i più alti d'Italia e d'Europa. La Sicilia è un paese dell'Unione Europea di più di 5 milioni di abitanti che, non partecipando al sistema europeo delle banche centrali, non beneficia di un centesimo del signoraggio (tributo occulto sulla moneta che usiamo) e, priva ormai di un sistema bancario proprio, paga interessi usurai a un sistema italiano di banche che ha interesse solo a raccogliere risparmio in Sicilia ma a non concedere più nessun credito. Il mercato del credito non è concorrenziale. Nessuna banca europea può aprire in Sicilia ma solo quelle italiane "gradite" a Bankitalia, le quali succhiano sangue al nostro popolo, fanno chiudere con le loro richieste di procedure fallimentari molte piccole imprese e pignorano case di malcapitati che non riescono a inseguire i tassi variabili nelle loro dinamiche impazzite.

6) La rapina per eccellenza è però quella della benzina. Paese esportatore netto tanto di idrocarburi quanto di derivati, alla Sicilia arriva un "prodotto finito" pieno di margini che restano nel Continente. Il più immorale dei quali è l'accisa che finanzia il malgoverno italiano (nel quale comprendiamo anche gli sprechi dei suoi rappresentanti in Sicilia, beninteso!). Potremmo pagare la benzina a 50 centesimi e invece...
E con la benzina tutto il costo della vita sale... Strangolando i bilanci dei più poveri, dei pensionati, che non arrivano a fine mese...

7) Poi ci sono le politiche industriali italiane che, in barba alle norme europee sulla concorrenza, fanno sì che la Sicilia sia rifornita di ogni bene o servizio dall'Italia a prezzi più o meno controllati, persino di quei beni di cui la Sicilia è produttrice di materia prima e che ci ritornano sotto forma di prodotto finito gravato di profitti italici. Produciamo grano ma dobbiamo comprare la pasta italiana (fatta col grano siciliano) nei supermercati italiani venduta da rivenditori italiani. Produciamo pomodorini, ma l'imprenditore italiano ce li compra, ce li impacchetta e ce li rivende. E si potrebbe continuare in ogni settore economico. Ogni tentativo di iniziativa economica che non sia marginale o subalterno all'economia peninsulare è boicottato da Bruxelles, da Roma e persino da Palermo in ogni modo. Risultato: non si produce niente, si importa tutto, a prezzi proibitivi e qui alligna solo la disoccupazione, il clientelismo e il sottosviluppo alimentato dai "pietosi" aiuti del centro.

8) Infine, solo infine, c'è la fiscalità e parafiscalità vera e propria. La Regione non attua la sua politica autonoma ma trattiene per sprecare il gettito riscosso in Sicilia. Il reddito prodotto in Sicilia ma riscosso altrove continua a finanziare Roma e i suoi sprechi in barba all'art.37 e alle sue norme attuative, mai attuate. L'Italia viola lo Statuto in mille modi riscuotendo in Sicilia tributi non dovuti e trasformando il fondo dell'art.38 in un'elemosina definita contrattualmente tra Italia e Sicilia. La parafiscalità previdenziale va al Continente ad alimentare altri sprechi con una forbice tra redditi percepiti dal lavoratore ed erogati dal datore che non ha pari in Europa e forse nel mondo e di cui - si badi - non un centesimo resta in Sicilia dove non ha sede alcun istituto previdenziale.

E poi siamo poveri! Cos'altro potrebbero rubarci? La dignità? Già fatto!
La nozione di esistere? Già fatto?
La lingua e l'identità? Ci stanno riuscendo!
Altro che rivolta fiscale! Qui ci vorrebbe una vera Rivoluzione.

Lasciateci dire, con la celebre canzone siciliana:

Arrivaru li navi,
quantu navi a Palermu,
li pirati sbarcaru
cu li facci di nfernu

N'arrubbaru lu suli, lu suli,
arristamu a lu scuru, chi scuru, Sicilia,
Sicilia chianci!

L'Altra Sicilia, Palermo


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giovedì 16 agosto 2007

Il futuro delle donne

Le emancipate d’Occidente e le sottomesse dell’islam spianeranno la strada ai maschi venuti da fuori. Il femminismo, denigrando i maschi di casa propria, ha infatti alimentato la cultura del politicamente corretto che impedisce ogni critica all’immigrazione incontrollata e ai fondamentalismi. E così per paradosso finisce per giustificare la schiavitù in cui è costretta la donna musulmana.

di Guglielmo Piombini


Nel mondo occidentale, dopo decenni di intimidazioni e lavaggio del cervello, gli uomini hanno perso il coraggio di replicare agli attacchi delle femministe. Ci voleva una donna come Alessandra Nucci, che in gioventù ha conosciuto dall’interno il movimento femminista, per denunciarne la pericolosa deriva estremista, illiberale e anticristiana. In un libro notevole uscito alla fine del 2006, La donna a una dimensione (Marietti, Genova, 2006), osserva che in Occidente le donne hanno conseguito una grande libertà di scelta nel campo dell’istruzione, del lavoro o della famiglia, ma le femministe, invece di celebrare questi progressi, continuano a presentare le donne come vittime della discriminazione e a pretendere dallo Stato trattamenti privilegiati.

La Nucci documenta in maniera dettagliata il modo in cui le femministe sono riuscite con successo ad avvalersi delle burocrazie e delle agenzie internazionali legate alle Nazioni Unite per imporre in ogni sede l’ideologia “di genere”. Questa dottrina si basa sulla convinzione che tutte le differenze fra gli uomini e le donne, a parte quelle fisiche, siano frutto di indebiti condizionamenti e di stereotipi sociali, e che quindi siano modificabili. Con il pretesto di assicurare alle donne la definitiva parità, osserva la Nucci, le femministe di genere mirano a renderle uguali agli uomini orientando (cioè manipolando) i gusti, con le pressioni culturali e l’educazione, nell’illusione di riuscire a creare una nuova natura umana, libera di scegliere fra orientamenti sessuali diversi e soprattutto libera di non riprodursi.

Ciò comporta l’incoraggiamento di nuovi stereotipi, inculcati con l’educazione a scuola e con le immagini nei media, in cui la donna è conformata a un modello per il quale la carriera e il lavoro fuori casa non sono più una scelta, ma l’esigenza unica per realizzarsi nella vita, l’uomo non è più tanto da uguagliare quanto da soppiantare, e la maternità diventa un’opzione residuale di second’ordine. La meta a cui puntano questi movimenti femministi è un via libero planetario alla diffusione delle pratiche di pianificazione famigliare (la Nucci parla di vero e proprio “imperialismo contraccettivo”), alla banalizzazione della promiscuità sessuale, all’universalizzazione dell’aborto libero e gratuito, a una ridefinizione della natura umana che annulli la famiglia annegandola nel mare dei generi intercambiabili: tutte cose che vanno in direzione della dissoluzione della famiglia monogamica auspicata da Friedrich Engels e da schiere di socialisti prima o dopo di lui.

Sorge però un dubbio: se i diversi ruoli tradizionali svolti dagli uomini e dalle donne non sono il frutto dell’oppressione patriarcale, ma di libere scelte che esprimono la natura maschile e femminile, le femministe non rischiano di creare infelicità nelle donne, costringendole a compiti non propri? Alessandra Nucci ricorda che già nel 1982 la femminista storica Betty Friedan aveva ammesso che ci potrebbe effettivamente essere qualcosa nella natura delle donne che le porta a trovare la felicità nella famiglia e nella casa. Se l’agiografia femminista ha imposto con successo come modello unico a cui aspirare quello della donna che lavora, studi sociologici hanno dimostrato che separare un bambino dalla madre troppo presto o per troppo tempo rischia di provocare danni a lungo termine su quel bambino.

Una multa per le casalinghe

Se le donne spesso preferiscono il part-time per stare con i propri figli non è perché sono indotte a sacrificarsi dai condizionamenti della società tradizionali, ma perché difficilmente la propria felicità può sussistere se i propri figli sono infelici. Per le femministe radicali, invece, queste donne sono da considerare dei soggetti da rieducare perché incapaci di capire da sole che è nel loro interesse optare per il lavoro a tempo pieno e privilegiare la propria autorealizzazione rispetto alla cura in prima persona dei propri figli. Una parlamentare laburista olandese, Sharon Dijksma, ha proposto addirittura di multare le donne che scelgono di fare le casalinghe invece di lavorare fuori casa, perché stando in casa sprecherebbero la costosa istruzione ricevuta “a spese della società”. È la solita storia: i politici prima caricano la gente di tasse per fornire dei servizi “gratuiti” non richiesti, e poi si sentono in diritto di gestire totalmente le loro vite.

Mettere in contrapposizione la felicità delle donne con quelle dei loro figli, osserva la Nucci, è irreale e innaturale. Se è vero che non esiste destino biologico che prescrive che la donna debba necessariamente realizzarsi come madre, è altrettanto vero che la donna che si può ritenere felice nonostante l’infelicità di un figlio è una vera rarità. Gli studi dimostrano inoltre che, nonostante tutti gli sforzi e le pressioni perché le donne pensino alla carriera e raggiungano l’esatta proporzione dei maschi nel lavoro, nella politica o negli sport, sia le femmine sia i maschi rientrano subito negli “stereotipi” tradizionali nel momento in cui li si lascia liberi di scegliere.

Nelle università, ad esempio, sono uomini la stragrande maggioranza degli studenti che scelgono i rami tecnologici, mentre le donne costituiscono la stragrande maggioranza delle iscritte a scienze dell’educazione e alle materie umanistiche.

Maschi marchiati da piccoli

Il femminismo radicale ha diffuso con successo una cultura che disprezza il maschio e tutti i caratteri solitamente associati alla mascolinità. Molte università occidentali prevedono dei corsi sul femminismo che diffondono un odio per gli uomini impensabile in qualsiasi altra parte del mondo. Nelle scuole dei Paesi anglosassoni e del Nord Europa i giovani maschi vengono sistematicamente attaccati per la loro identità e denigrati dalle insegnanti, che arrivano a provocare le femmine per farle adirare contro il sesso maschile. Fin da piccoli i maschi si sentono marchiati come il sesso violento e insensibile, e vivono in uno stato permanente di colpevolezza.

La mentalità ingenerata dal femminismo organizzato suggerisce anche che i padri sarebbero un elemento di poco conto all’interno della famiglia. Questo spiega perché i tribunali assegnino di regola i figli alla madre in caso di separazione, perché il parere del padre sulla decisione di abortire o meno non conti nulla, e perché i programmi televisivi e le pubblicità ritraggano raramente figure positive di uomini. Questa pressione giuridica e culturale fa sì che siano sempre più numerose la famiglie in cui il padre è assente, perché respinto dalla madre o perché scacciato e perseguitato dai tribunali imbevuti di ideologia femminista. Negli Stati Uniti, ad esempio, pare siano ormai il 40 % i figli minorenni che non vivono con il padre. Tuttavia, come ha dimostrato anche lo psicologo Claudio Risè nel libro Il padre. L’assente inaccettabile (San Paolo, Cinisello Balsamo [MI], 2003), gli studi indicano che la mancanza della figura paterna danneggia irreparabilmente lo sviluppo armonioso dei figli.

Il padre infatti ha il compito di sciogliere il nodo protettivo che lega la madre al bambino, spingendo il figlio a diventare intraprendente e ad aspirare all’autonomia. Nell’ideologia femminista però vi è un aspetto ancora più inquietante: solo i maschi occidentali vengono messi sotto accusa e stigmatizzati fin dalla più tenera età. Le femministe non spendono una parola di critica nei confronti degli uomini che appartengono a culture molto più oppressive e “patriarcali” di quella occidentale. Nel 2002 la femminista svedese di idee marxiste Gudrun Schyman, il cui usuale grido di battaglia è «morte alla famiglia nucleare!», ha affermato che gli uomini svedesi non sono differenti dai talebani, e ha proposto una tassazione collettiva per legge a carico di tutti gli uomini svedesi, in riparazione delle loro presunte violenze sulle donne.

Attenti al boomerang

Nel 2004, sul maggior quotidiano svedese Aftonbladet, la femminista Joanna Rytel ha scritto un articolo intitolato Non darò mai vita a un bambino bianco, nel quale affermava che i maschi bianchi sono tutti egoisti, sfruttatori, presuntuosi e sessuomani, concludendo con l’avvertimento «uomini bianchi, statemi lontani!». Le femministe norvegesi stanno cercando di far approvare una legge che impone la chiusura di tutte le imprese che non assumano almeno il 40 per cento di donne nei loro consigli di amministrazione; inoltre hanno chiesto anche quote per gli immigrati musulmani.

L’attacco al maschio occidentale potrebbe produrre però un inatteso effetto boomerang: la progressiva islamizzazione culturale e demografica del continente europeo. Distruggendo la famiglia e la figura paterna e maschile, le femministe stanno spianando la strada alla penetrazione indisturbata dell’islam nelle società occidentali, preparando così un futuro da incubo per le prossime generazioni di donne. In altre parole, la vittoria del femminismo potrebbe paradossalmente favorire l’avvento dell’Eurabia.

Per quanto alcune delle più coraggiose e indomite avversarie dell’Islam siano donne (si pensi a Oriana Fallaci, a Bat Ye’Or, a Ayaan Hirsi Ali), è indubbio che, nella media, le donne occidentali siano più favorevoli al multiculturalismo e all’immigrazione islamica rispetto agli uomini occidentali. In tutto l’Occidente i partiti più critici verso l’immigrazione sono tipicamente maschili, mentre quelli che esaltano la società multiculturale sono spesso dominati dalle femministe. Se negli Stati Uniti avessero votato solo le donne, il presidente in carica l’11 settembre 2001 sarebbe stato Al Gore, non George W. Bush. In Norvegia l’unico partito che cerca di contrastare l’immigrazione islamica di massa che sta cambiando il volto del paese è il Partito del Progresso, il cui elettorato è per il 70 per cento maschile; all’estremo politico opposto il multiculturalista Partito Socialista riceve il 70 per cento dei suoi voti dalle donne.

La spiegazione femminista di questo diverso comportamento elettorale è che gli uomini sarebbero “più xenofobi ed egoisti”, mentre le donne avrebbero la mente più aperta e sarebbero più solidali con gli estranei. La verità, probabilmente, è che tradizionalmente gli uomini hanno sempre avuto la responsabilità di individuare i pericoli e di proteggere la propria comunità dai potenziali nemici esterni.

Il rifiuto delle femministe di confrontarsi con il problema dell’immigrazione musulmana non ha però solo motivazioni psicologiche, ma anche ideologiche. Molte femministe sono silenziose sull’oppressione islamica delle donne perché hanno abbracciato un’ideologia terzomondista e antioccidentale che le paralizza. A giudicare dalle retorica femminista, infatti, tutta l’oppressione del mondo proviene dall’uomo occidentale, che opprime sia le donne sia gli uomini non occidentali. Gli immigrati musulmani sarebbero anch’essi delle vittime: al massimo con qualche pregiudizio patriarcale, ma comunque sempre meglio degli uomini occidentali.

Quasi tutte le femministe radicali, infatti, sono anche delle accese “anti-razziste” che si oppongono ad ogni minima limitazione dell’immigrazione islamica in quanto “razzista e xenofoba”. Il femminismo radicale si è trasformato gradualmente in egualitarismo, cioè nella lotta contro tutte le “discriminazioni” e nell’idea che tutti i gruppi di persone debbano disporre di una quota uguale di tutto, e che sia compito dello Stato assicurarla.

Stupri a go go

Le femministe hanno contribuito enormemente alla diffusione della cultura del vittimismo in Occidente, che permette di ottenere i vantaggi politici sulla base dello status di appartenenza nella gerarchia delle vittime. Inoltre hanno chiesto, e in larga misura ottenuto, la riscrittura dei libri di storia che facesse giustizia dei “pregiudizi” maschilisti ed eurocentrici. Queste loro idee fanno oggi parte dei programmi scolastici e sono praticamente egemoni sui media. In breve, le femministe radicali hanno rappresentato l’avanguardia della “correttezza politica” in tutto l’Occidente.

Quando i musulmani arrivano in Occidente portandosi dietro la loro mentalità vittimista si trovano il lavoro già preparato da altri. Colgono quindi su un piatto d’argento l’opportunità di sfruttare una tradizione vittimista già stabilita, che gli permette di ottenere interventi statali a proprio favore, quote preferenziali, la riscrittura della storia in senso filo-islamico, e campagne politiche contro “l’islamofobia” e “l’incitamento all’odio”. Le femministe occidentali hanno dunque spianato la strada alle forze che annienteranno il femminismo occidentale, e di questo passo finiranno a letto, letteralmente, con il nemico.

La graduale trasformazione dell’utopia femminista nel suo opposto, la legge coranica, è ormai evidente nei paesi scandinavi, dove l’applicazione dell’ideologia femminista e multiculturalista ha raggiunto le punte più avanzate. Negli ultimi anni, infatti, si è verificato un enorme aumento degli stupri e delle violenze sulle donne, per opera nella quasi totalità dei casi di giovani immigrati islamici. In Svezia il numero degli stupri è quadruplicato in una generazione, parallelamente all’afflusso di una immigrazione islamica senza controllo che ha già preso possesso di intere città, come Malmoe. Pur rappresentando non più del 5 % della popolazione, in Norvegia e in Danimarca due terzi di tutti gli uomini arrestati per stupro sono «di origine etnica non-occidentale», un eufemismo usato per designare gli appartenenti alla religione musulmana.

Nel 2001 Unni Wikan, professoressa di antropologia sociale all’università di Oslo, ha dato la precedenza al multiculturalismo sul femminismo, spiegando in un’intervista al quotidiano Dagbladet che «le donne norvegesi hanno la loro parte di responsabilità in questi stupri» perché, essendo ormai la Norvegia una società multiculturale, le donne norvegesi devono adattarsi ai costumi degli immigrati, abbigliandosi e comportandosi in maniera giudicata non provocatoria dalla loro cultura. Per i multiculturalisti, quindi, i norvegesi sono solo una delle tante etnie che popolano il paese dei fiordi (forse neanche la più importante), e sulle decisioni che riguardano la Norvegia non hanno più voce in capitolo dei somali o dei curdi giunti la settimana scorsa.

La risposta degli uomini scandinavi a queste continue aggressioni è stata quasi inesistente. La ragione principale ha a che fare con l’influenza delle idee fortemente antimaschili che le femministe scandinave hanno diffuso negli ultimi decenni. L’istinto protettivo maschile non si manifesta perché le donne nordiche hanno lavorato senza sosta per sradicarlo, insieme a tutto ciò che fa parte della mascolinità tradizionale. In questo modo il femminismo ha indebolito mortalmente la Scandinavia, e probabilmente l’intera civiltà occidentale.

Dal punto di vista femminista questa situazione ha una sua logica: se tutta l’oppressione del mondo proviene dai maschi occidentali, il regno di pace e di eguaglianza sognato dalle femministe potrà essere raggiunto solo quando gli uomini bianchi verranno messi in condizione d’impotenza. La soppressione e la ridicolizzazione degli istinti maschili, tuttavia, non sta conducendo al paradiso femminista, ma all’inferno islamista.

Una società in cui gli uomini sono stati “femminilizzati”, infatti, è destinata a cadere preda delle più aggressive civiltà tradizionali. Invece di “avere tutto”, le femministe rischiano di perdere tutto, e la crescente violenza degli immigrati contro le donne occidentali è un sintomo del crollo dell’utopia femminista.

Sharia dreaming

Ma come si spiega l’ammirazione delle donne progressiste occidentali per l’Islam, quando non esiste un solo paese musulmano in cui le donne godano di diritti lontanamente paragonabili a quelli dell’uomo? Le attiviste occidentali che a casa propria attaccano duramente “l’arretratezza” e “la mentalità patriarcale” della Chiesa cattolica sono le stesse che si sottomettono con più voluttà alla sharia quando si recano nei paesi musulmani. Di recente la giornalista Lilli Gruber, la cantante Gianna Nannini e la speaker del Congresso americano Nancy Pelosi, che in Occidente fanno quotidianamente professione di femminismo, progressismo e trasgressione, hanno ostentato con orgoglio le loro foto con il chador scattate durante i viaggi in Medio Oriente.

Quando si comportano così, ha ironizzato qualche commentatore “maschilista”, le femministe tradiscono i propri desideri più nascosti. Lo scrittore danese Lars Hedegaard ha scritto, in un articolo intitolato Il sogno della sottomissione, che «quando le donne occidentali spalancano le porte alla sharia, presumibilmente lo fanno perché vogliono la sharia». La scrittrice inglese Fay Weldon ha rincarato la dose affermando che «molte di queste donne trovano sessualmente attraente la sottomissione» e poco seducenti e noiosi gli uomini femminilizzati dell’Europa Occidentale, rispetto ai virili sceicchi del deserto.

Ma nello stesso modo si comportano probabilmente anche gli uomini occidentali quando devono scegliere una compagna di vita. È stato notato che nei paesi scandinavi sono in forte aumento gli uomini che preferiscono una moglie straniera proveniente da culture più tradizionali dell’estremo oriente o dell’America Latina. Il femminismo radicale ha portato separazione, sospetto e ostilità tra i sessi, non cooperazione. E non ha sradicato la naturale attrazione per le donne con caratteri femminili e per gli uomini con caratteri mascolini. Ai musulmani spesso piace far notare che in Occidente si convertono all’islamismo più donne che uomini. In un servizio giornalistico sulle donne svedesi convertite all’Islam, risulta che l’attrazione per la famiglia islamica sia una delle motivazioni principali. Queste donne nordiche convertite trovano appagamento nel ruolo ben definito di cura della casa e dei figli che l’Islam assegna loro. Hanno scoperto un senso da dare alla propria vita che non trovavano nella cultura secolare o nell’insipido e succube Cristianesimo modernista.

In psichiatria è stato notato che le donne tendono più frequentemente a rivolgere la propria nevrosi su se stesse, infliggendosi delle ferite o tenendo dei comportamenti autodistruttivi. Gli uomini invece sono più portati a dirigere la propria aggressività verso l’esterno. È inoltre risaputo che un certo numero di donne maltrattate dal marito tendono a giustificarne i comportamenti aggressivi e ad incolpare se stesse. La sensazione è che l’Occidente nel suo insieme, dopo decenni di propaganda antimaschile, abbia adottato inconsciamente alcuni di questi tratti negativi della psiche femminile. L’Occidente femminilizzato viene quotidianamente minacciato, insultato e aggredito con prepotenza dal mondo musulmano, ma reagisce -- come la moglie abusata - incolpando se stesso, come se fosse in qualche modo affascinato dai suoi aguzzini.

L’avanguardia rivoluzionaria

Come ha scritto Alexandre Del Valle nel suo recentissimo libro Il totalitarismo islamista (Solinum, Castellazzo Bormida [AL], 2007), questo masochismo espiatorio degli occidentali, frutto della tendenza a dubitare della propria civiltà e a flagellarsi di continuo, costituisce una irresistibile esortazione alla liberazione delle pulsioni più sadiche del fondamentalismo islamico.

La femminista americana Ellen Willis scriveva nel 1981 su The Nation: «Il femminismo non riguarda solo una questione o un gruppo di questioni, ma è l’avanguardia di una rivoluzione dei valori culturali e morali. L’obiettivo di ogni riforma femminista, dalla legalizzazione dell’aborto alla promozione degli asili-nido pubblici, è quello di demolire i valori della famiglia tradizionale».

L’icona del femminismo Simone de Beauvoir affermò che «nessuna donna dovrebbe essere autorizzata a stare a casa per allevare i bambini, perché lasciandogli questa libertà troppe donne farebbero la scelta sbagliata». Oggi ci accorgiamo che i desideri delle femministe degli anni Sessanta e Settanta si sono avverati oltre le più rosee previsioni: in Occidente i divorzi hanno avuto una crescita esplosiva mentre il numero dei matrimoni e delle nascite è crollato, determinando un vuoto culturale e demografico che ci ha resi vulnerabili all’irruzione dell’Islam.

Il femminismo radicale ha inferto un colpo durissimo alla struttura famigliare del mondo occidentale, ma sarà impossibile risollevare i tassi di natalità se le donne non tornano ad essere apprezzate per il loro ruolo di madri e se il matrimonio non viene rivalutato. Non esistono altre istituzioni diverse dalla stabile famiglia tradizionale per crescere bambini culturalmente, emotivamente e psicologicamente sani e felici. Il matrimonio non è “una cospirazione per opprimere le donne”, ma la ragione per cui noi siamo qui.

In definitiva, il femminismo radicale ha rappresentato una delle più importanti cause dell’attuale indebolimento della civiltà occidentale, sia dal punto culturale che dal punto di vista demografico.

Le femministe radicali, portatrici spesso di una visione del mondo marxista, hanno dato un contributo fondamentale all’affermazione della soffocante “correttezza politica” che impedisce ogni reazione dell’Occidente; inoltre, debilitando la struttura famigliare dell’Occidente hanno contribuito a rendere la nostra civiltà incapace di reggere l’assalto di società prolifiche e patriarcali come quella islamica.

Il destino di una società dominata dall’ideologia femminista, dove gli uomini sono troppo demoralizzati, indeboliti e inebetiti per difenderla, è quello di essere schiacciata e sottomessa dagli uomini provenienti da altre culture più aggressive e mascoline. È questo che sta accadendo all’Europa occidentale. L’ironia della sorte è che quando in Occidente le donne lanciarono la seconda ondata del femminismo negli anni Sessanta e Settanta godevano già di una situazione in via di miglioramento e non erano particolarmente oppresse, almeno rispetto ad altre parti del mondo. Alla fine del ciclo, quando gli effetti a lungo termine del femminismo radicale si saranno compiuti, le donne si troveranno realmente schiavizzate sotto l’implacabile tallone dell’Islam.

Sarà l’ennesima eterogenesi dei fini che, da sempre, scombussola i disegni e le vicende della storia umana.

Il Domenicale 28 luglio 2007

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Riferimenti:

Alessandra Nucci - Donna a una dimensione (La). Femminismo antagonista, Marietti - 2006 - pp. 256


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giovedì 9 agosto 2007

Giusto, Maria non è una divinità. E' molto di più

di Vittorio Messori

Inutili le solite geremiadi contro le cose italiane: come se solo da noi la magistratura fosse spesso più un problema che una soluzione ai problemi. E’ così in tutti i Paesi che, nell’organizzare la cosiddetta «giustizia», si sono ispirati al modello giacobino, francese.

Un modello secondo il quale si diventa giudici —e arbitri— della vita altrui frequentando un’università e rispondendo poi a qualche quiz sui codici in un esame pubblico, aperto a tutti. Non era certo così nel modelloancien régime , conservato gelosamente dai Paesi anglosassoni, per i quali al giudice si richiedevano, e si richiedono, non solo conoscenze teoriche ma anche doti concrete di saggezza o almeno di buon senso, esperienza, sensibilità umana, rispetto per le tradizioni. Le parrucche dei tribunali inglesi, che fanno ridere gli sciocchi, sono il segno e ammonimento di questi valori.

Con magistrati così non sono pensabili decisioni come quella del procuratore generale di Bologna che — come è ormai ben noto — ha chiesto di archiviare la denuncia per vilipendio alla religione, visto che, codici alla mano, la sola bestemmia punibile è «contro la Divinità». E poiché Maria di Nazareth «non è una divinità», non c’è luogo a procedere contro chi la insulti. Così, questo «dottore», che precisa di essersi applicato a studi teologici per arrivare a simili conclusioni, che devono sembrargli segno di apertura, di modernità, di tolleranza. Oltre, s’intende, che di competenza — seppure rimediata per l’occasione — vista la sua applicazione su severi e complessi testi di materie religiose. Sui tecnicismi legali lascio ovviamente ogni responsabilità al procuratore, vista la mia situazione scolastica un po’ paradossale: in effetti, non ho competenze giuridiche specifiche, malgrado la mia remota laurea sia in giurisprudenza. Ma è una sorta di inganno: infatti, quando mi iscrissi a Scienze Politiche, queste erano appena state istituite, all’università di Torino, così da risultare un corso di laurea della facoltà di giurisprudenza.

Ai pochi esami di legge non ho fatto seguire approfondimenti della materia, per la quale sono dunque quasi un profano. Lo sono un po’ meno, invece, per quanto riguarda le discipline teologiche.

Manon occorre disturbare le Summae, basta il semplice catechismo per avere chiaro che sì, la Madonna (come la chiama il popolo) non è una «divinità » nemmeno per i cattolici e gli ortodossi che le tributano il culto che sappiamo. Maria è, in pieno, una donna ebrea, è una persona umana come ogni altra, tranne che per il singolare privilegio di essere stata preservata alla nascita dalle conseguenze del peccato originale (il dogma della Immacolata Concezione). In ogni caso, mentre soltanto alla Triade divina — Padre, Figlio Spirito Santo — è dovuta l’adorazione, aMaria spetta la venerazione, come a ogni altro «santo» o «beato », seppure in misura speciale e, in qualche modo, superiore.

Non una «divinità», dunque. Ma al divino strettamente, e misteriosamente, legata, tanto che nell’anno 431, in una memorabile seduta, il concilio ecumenico di Efeso la proclamòTheotokos : cioè, in greco «Madre di Dio». Non, dunque, madre soltanto dell’uomo Gesù di Nazareth ma del Cristo, in quanto vero uomo ma anche vero Dio. Nella prospettiva del credente, Madre e Figlio sono inestricabilmente legati, tanto che molto spesso la preghiera si rivolge a Lei perchè interceda presso di Lui. Il Rosario, la preghiera tradizionale per eccellenza del cattolico, consiste in decine di Ave Maria che, attraverso la mediazione dellaTheotokos giungano al Cristo cui ha dato carne. I grandi santuari che attirano folle sempre crescenti (sono tra le poche realtà cattoliche che non registrano flessioni), Lourdes, Fatima, Czestochowa, Guadalupe, Loreto e così via, sono luoghi prediletti da Dio perchè in essi la Madre si è manifestata.Si potrebbe continuare, ma ci pare basti: se questa è la situazione (nota a ogni credente, e per conoscere la quale non occorrono gli studi teologici del magistrato bolognese) è ben difficile sostenere che l’offesa alla Madonna non riguarda la «Divinità». Maria, lo ripetiamo, non è una «dea» ma, al contempo, come «Madre di Dio», è qualcosa di incomparabilmente maggiore. In ogni caso, la sensibilità dei devoti ha sempre avvertito con forza che ogni offesa a lei era un’offesa a quella Trinità che l’ha misteriosamente prescelta come strumento dell’incarnazione del Logos. Un sommesso consiglio, dunque: il prossimo magistrato che si occuperà di simili cose non consulti i teologi ma la vecchietta in chiesa, con il suo rosario e con quel suosensus fidei che intuisce quali siano i rapporti tra quella Signora e il Signore.

Corriere della Sera, edizione di Bologna, 31 luglio 2007


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mercoledì 8 agosto 2007

La verità vale più della democrazia

di Alessandro Maggiolini

Le osservazioni che pongo in questo intervento possono sembrare elementari, perfino semplicistiche. Eppure stanno alla base di una valutazione della democrazia come metodo per giungere alla verità. Dire democrazia significa parlare di un metodo per stabilire la verità: un metodo dove la verità è fissata dalla maggioranza dei pareri delle persone che compongono una società.

Se cento cittadini concorrono a esprimere il loro parere su una questione, non è necessario che tutti concordino nella loro espressione di opinione: basta la maggioranza; basta, cioè, che 51 manifestino una medesima posizione su un problema, per affermare che quella soluzione deve essere considerata quella giusta. Non servono tanto le ragioni che si portano per giustificare il proprio parere: basta che si manifesti il proprio parere. Né ha molta attinenza con la verità dell’opinione espressa il fatto che coloro che la pensano diversamente siano tanti o pochi. Il metodo democratico può sembrare sbrigativo, ma un solo voto può decidere un problema anche di grave portata.

Ciò non significa che la consistenza di un’opinione si misuri con il pallottoliere: la quantità delle opinioni non misura la verità delle opinioni stesse. Se in uno Stato si decidesse che la pena di morte è legittima almeno in alcuni casi, o che debbano essere legalizzati l’omicidio, la rapina o la soppressione della vita nel caso di una malformazione fisica, questa decisione, anche se assunta a pieni voti, non dovrebbe avere nessun valore. La verità prevale sulla libertà dei singoli. Per impedire che una maggioranza di persone - magari stragrande - eserciti il potere in maniera indiscriminata, si deve ammettere che esistono alcune verità le quali - ci si esprima con le parole di Benedetto XVI - sono «indisponibili», vale a dire non possono essere messe ai voti, non dipendono dalla maggioranza dei pareri che le appoggiano. Ciò fa capire che deve esistere una verità più forte del voto della maggioranza: una verità in base alle quale, per esempio, far morire un uomo innocente, anche se malato gravemente, è un orribile ingiustizia.

Può sembrare macchinosa questa procedura democratica contemporanea; eppure essa si propone come l’alternativa più valida o semplicemente valida, nel caso in cui la verità sia considerata meno importante della volontà della maggioranza. La democrazia post-moderna si apre così gradatamente - quasi insensibilmente - al relativismo e allo scetticismo. Finché nella società vigevano ancora i valori e i principi morali e religiosi intangibili, tali valori e principi si ponevano come limite invalicabile alla iniziativa umana: alla libertà non normata da verità incontrovertibili.

I fondatori dello Stato democratico moderno non avrebbero potuto stendere alcuna Dichiarazione di Indipendenza e di Tutela dei Diritti umani, se al fondo non avessero affermato la «verità dell’uomo»: una verità non arbitraria, ma riconosciuta grazie all’esistenza della legge naturale completata dalla legge rivelata: la verità, in altri termini, è più solida e fondante di una libertà senza norme. Se non si è più che attenti la democrazia si orienta a diventare la «dittatura del relativismo», come si esprime Papa Ratzinger: la democrazia è la forma moderna della Torre di Babele, il simbolo della umanità che si sgancia dal riferimento all’autorità che proviene da Dio, per affermare che «il potere appartiene al popolo».

Queste considerazioni possono apparire ostiche a coloro che cedono a una sorta di sub-pensiero contemporaneo: la democrazia - comunque la si intenda - sarebbe da interpretare come un bene assoluto messo nelle mani degli uomini. E, anche nel nome di una laicità fortemente intrisa di anticattolicesimo e di odio per la religione, si avvia a diventare l’unico elemento «assoluto» - «divino» si direbbe - della cultura contemporanea.

Per cui, si profila per il secolo che inizia uno scontro di civiltà che schiera da un lato la Chiesa e tutti i cattolici che riconoscono la necessità di ancorare il metodo democratico a una verità intangibile dell’uomo; dall’altro, le democrazie relativistiche e nichilistiche, per esempio dell’Unione Europea, che predicano e diffondono il verbo dello scetticismo. Si pensi ai problemi della bioetica.

Si pensi alla potenza pseudo-democratica che possono avere gli strumenti di comunicazione di massa che formano (in chiave vagamente gramsciana) la mentalità corrente. L’impegno per gli uomini di buona volontà si profila chiaro.

il Giornale.it, 8 agosto 2007


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martedì 7 agosto 2007

Mussolini, Gramsci, l'Italia e il mito della violenza salvifica

L’ITALIA E IL MITO DELLA VIOLENZA “BUONA”

Socialismo massimalista, nazional-fascismo, comunismo gramsciano, azionismo: le moderne culture politiche sorte in Italia hanno ammesso liceità e necessità della violenza. Solo la cultura cattolica é esente da questa grave colpa. Lo ha riconosciuto uno studioso laico, Ernesto Galli della Loggia…

di Angela Pellicciari


In un editoriale del 27 aprile sul Corriere della Sera, Ernesto Galli della Loggia individua un filo rosso nella storia dell’Italia unita: la propensione alla violenza radicata nel mito della rivoluzione. Galli della Loggia non fa sconti alla storia patria ed afferma che la violenza è stata ritenuta «ammissibile (addirittura necessaria)» da «tutte le moderne culture politiche che hanno visto la luce nella penisola... : il socialismo massimalista, il nazional-fascismo, il comunismo gramsciano, l'azionismo».

A cominciare, come ovvio, dal momento dell'unificazione: quel Risorgimento che Galli della Loggia così descrive: «Sorti alla statualità da un moto rivoluzionario con alcuni tratti di guerra civile». Come i lettori del Timone sanno, il Risorgimento è stato proprio una guerra rivoluzionaria, giustificata all'estero e presso le élites liberali dei vari Stati preunitari, in nome della lotta al cattolicesimo nelle sua sede di elezione: Roma e l'Italia.

Si trattava di rifare gli italiani secondo criteri illuminati, condivisi all'incirca dall'1 % della popolazione e da questa imposti al restante 99. Rispetto a socialismo, fascismo e comunismo, il liberalismo ha però una peculiarità tutta propria: non rivendica mai il ricorso alla violenza. Ne fa uso sistematico e su larga scala, ma nega con decisione di praticarla. La rivoluzione liberale, vale la pena di ricordarlo, sopprime tutti gli ordini religiosi in nome della Costituzione. Ma la Costituzione stabilisce che la religione cattolica e l'unica religione di Stato. Il liberalismo toglie la libertà alla Chiesa, cioè agli italiani tutti, ma lo fa in nome della libertà.

Se il liberalismo pratica la violenza rivoluzionaria di fatto e non di diritto (Cavour organizza l'invasione di tutti gli Stati preunitari proprio per impedire -così sostiene -lo scoppio della rivoluzione), Socialismo, fascismo e comunismo teorizzano apertamente la bontà della violenza rivoluzionaria. Da questo punto di vista Mussolini e Gramsci sono fratelli gemelli.

Che le cose stiano così lo mostra in modo chiarissimo un dibattito che si svolge al la Camera dei deputati il 26 maggio 1925. È in discussione una legge fortemente voluta da Mussolini per abolire le associazioni segrete, prima fra tutte la massoneria. Quella seduta è l'unica che vede protagonisti Mussolini e Gramsci e riveste di per sé un estremo interesse. Interesse che diventa vivissimo se si entra nel merito degli argomenti affrontati, in particolare quello relativo all'uso rivoluzionario della violenza.

Ecco lo scambio di battute Mussolini-Gramsci: Mussolini: «A proposito di violenze elettorali io le ricordo [a Gramsci] un articolo di Bordiga [alto dirigente comunista] che le giustifica a pieno!».
Gramsci: «Non le violenze fasciste, le nostre. Noi si amo sicuri di rappresentare la maggioranza della popolazione, di rappresentare gli interessi più essenziali della maggioranza del popolo italiano; la violenza proletaria è perciò progressiva e non può essere sistematica. La vostra violenza è sistematica e sistematicamente arbitraria perché voi rappresentate una minoranza destinata a scomparire».

Prosegue Gramsci: «È molto probabile che anche noi ci troveremo costretti ad usare gli stessi vostri sistemi, ma come transizione, saltuariamente. Sicuro: ad adottare gli stessi vostri sistemi, con la differenza che voi rappresentate la minoranza della popolazione, mentre noi rappresentiamo la maggioranza».

Per Gramsci insomma c'è violenza e violenza: la sua e sicuramente buona. Quella degli altri, viceversa, cattiva. Perché? Perché la violenza comunista, cioè quella che rivendica, è, per definizione, progressista. Perché i comunisti, a suo dire, rappresentano «gli interessi più essenziali della maggioranza». Insomma, un atto di fede. Si è tanto parlato e scritto della violenza fascista, si è spesso taciuto di quella rivendicata da Antonio Gramsci, mitico fondatore del Partito Comunista italiano.

Per fede nella bontà dei propri ideali (e dei propri interessi) i liberali mettono a soqquadro l'Italia. Lo fanno nel nome della Costituzione e della libertà, negando la violenza di cui si rendono responsabili. Mussolini e Gramsci esplicitano le cose: l'uso della violenza è giustificato (ad onor del vero va specificato che la violenza fascista non è nemmeno lontanamente paragonabile a quella praticata dai comunisti ovunque sono andati al potere).

Come profetizza papa Pio IX fin dalla prima enciclica, il disprezzo liberale per le norme fondamentali dello Stato di diritto avrebbe inevitabilmente condotto ad un disprezzo ancora maggiore di tutti i principi del vivere civile: quello teorizzato dalla dottrina comunista. Pio IX scrive nellaNostis et nobiscum dell'8 dicembre 1849: «abusando dei nomi di libertà e di uguaglianza» i rivoluzionari «[...] cercano di insinuare nel volgo i funesti principi del socialismo e del comunismo. È evidente poi che gli stessi maestri del comunismo e del socialismo, sebbene agiscano per strada e con metodo diversi, hanno infine quel comune proposito di far sì che gli operai e gli altri uomini soprattutto di condizione inferiore, ingannati dalle loro menzogne e illusi dalla promessa di una vita migliore, si agitino in continue turbolenze e a poco a poco si addestrino a più gravi misfatti; intendono poi valersi dell'opera loro al fine di abbattere il governo di qualunque superiore autorità, di rubare, saccheggiare, invadere dapprima le proprietà della chiesa e poi quelle di chiunque altro; di violare infine tutti i diritti divini e umani, distruggendo il culto divino e sovvertendo l'intera struttura delle società civili". Pio IX cosi prosegue: «[...] da quella cospirazione non potrà derivare la benché minima utilità temporale per il popolo ma piuttosto nuovi aumenti di miserie e di sventure. Infatti non è concesso agli uomini fondare nuove società e comunioni in contrasto con la naturale condizione delle cose umane; perciò l'esito di tali cospirazioni, qualora si diffondessero per l'Italia, non potrebbe essere altro che questo: indebolito e sgretolato dalle fondamenta l'odierno ordinamento pubblico per le reciproche aggressioni, usurpazioni e stragi, di cittadini contro cittadini, alla fine alcuni pochi, arricchiti con le spoglie di molti, prenderebbero il sommo potere a comune rovina".

Galli della Loggia ha ragione: tutte le «moderne culture politiche che hanno visto la luce nella penisola», sono intrise del mito della violenza salvifica: la violenza rivoluzionaria. Ad esse fa eccezione la cultura cattolica, che è la cultura della maggioranza della popolazione: «A livello di massa, in pratica, ha fatto eccezione solo la cultura politica cattolica. Se non ci fosse stata la quale, come si sa, è probabile che non ci sarebbe stata neppure l'Italia democratica che invece abbiamo avuto».

Galli della Loggia descrive un dato di fatto. Chissà se qualcuno ne prenderà atto.

IL TIMONE, anno IX – Luglio-Agosto 2007

FONTE


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lunedì 6 agosto 2007

Magdi Allam commenta l'infame manifesto di Reset

«UN INCITAMENTO A CHI MI VUOLE MORTO»

«Quell’infame manifesto è un pessimo esempio di contraddittorio intellettuale. È un atto di inciviltà, un delitto di valori come libertà e democrazia. È un plotone di esecuzione mediatica nel quale si tralasciano i fatti e vengo sommariamente condannato. È benzina sul fuoco nei confronti di una persona sulla cui testa già incombe la fatwa dei terroristi islamici»…

di Luca Soliani



«Quel manifesto è un incitamento a proseguire il piano criminoso di coloro che mi vogliono morto». È durissimo il giudizio che lo scrittore e giornalista Magdi Allam esprime - per la prima volta ed in esclusiva per L’informazione - sulla vergognosa sottoscrizione comparsa sul periodico Reset contro la sua persona dopo la recente uscita del libro “Viva Israele”. In calce all’anatema compaiono le firme anche di due reggiani: l’assessore novellarese Paolo Santachiara e il docente universitario Alberto Melloni. Ad esso, hanno poi assicurato il loro appoggio il sindaco di Novellara Raul Daoli, e il giovane reggiano di origine marocchina Khalid Chaouki.

Rincara poi la dose il coraggioso intellettuale che da anni - non solo dalle pagine del Corsera di cui è vicedirettore, ma anche con saggi e interventi pubblici - mette in guardia dai tragici rischi che corriamo nell’ospitare nel nostro Paese un Islam deformato dall’ideologia e dal fanatismo:«Quell’infame manifesto è un pessimo esempio di contraddittorio intellettuale. È un atto di inciviltà, un delitto di valori come libertà e democrazia. È un plotone di esecuzione mediatica nel quale si tralasciano i fatti e vengo sommariamente condannato. È benzina sul fuoco nei confronti di una persona sulla cui testa già incombe la fatwa dei terroristi islamici».

Queste non sono parole che il giornalista di origine egiziana pronuncia a cuor leggero. Non sono uno sfogo estemporaneo dovuto all’indignazione del momento. Non sono la risposta impulsiva alla messa all’indice che ha subito. Sono la lucida e attenta lettura di un gravissimo, e intellettualmente disonesto, atto dalle conseguenze imprevedibili. Atto che mette ulteriormente a rischio la vita di un uomo che si sarebbe macchiato della colpa di denunciare per tempo il progetto criminale dei fondamentalisti islamici che sono in mezzo a noi.
«Dopo la pubblicazione di “Viva Israele”- entra nel merito della questione Allam - abbiamo assistito alla rivolta di una parte del mondo accademico che si è sentita colpita da una serie di critiche circostanziate che adducono fatti concreti. E cioè che diversi docenti hanno a più riprese espresso simpatia e solidarietà con estremisti islamici che predicano morte e distruzione. Sono sicuro che molti di coloro che ora mi criticano non hanno neppure letto il libro. Il loro è un pessimo e disonesto esempio di contraddittorio, che oltretutto confonde la posizione valoriale con quella politica ».

Il vicedirettore del Corriere della Sera entra poi nel merito delle questioni aperte sul territorio reggiano: «L’Emilia è un territorio profondamente trasformato dal permissivismo delle autorità locali, affette da una sorta di deriva buonista della tradizione umanitaria di questa terra. Sfruttando la situazione favorevole, pericolosi gruppi islamici hanno trovato terreno fertile per radicarsi e camuffarsi in vario modo, per poi consolidarsi attingendo al benessere generale e ai fondi stanziati dalle istituzioni locali. Il drammatico risultato è la presenza di cellule terroristiche che gestiscono moschee dove si professa l’odio e la cultura della morte».

Secondo lo studioso, il fondamentalismo islamico non è la conseguenza di una condizione di emarginazione sociale ed economica e il suo proliferare nell’Emilia ne è la dimostrazione. Magdi Allam ricorda infatti che proprio tra Reggio, Sassuolo, Modena e Carpi, «si è radicato il potere e s’intensifica l’attività dei gruppi del Minhaj-Ul Quran, che dispongono di 17 moschee in Italia e sono ostili all’emancipazione della donna. Sono presenti anche i Tabligh, che predicano il califfato islamico e lo scorso aprile hanno radunato allo stadio di Bologna circa 8 mila adepti provenienti da tutt’Europa». Non dimentichiamo poi che proprio a Carpi - a ridosso del confine con il reggiano -, sono stati arrestati cinque pachistani coinvolti nell’ambito dell’operazione “Khiber pass”, che ha individuato una filiera bancaria islamica con una ramificazione internazionale, in grado di gestire dai 2 ai 4 milioni di dollari al giorno. Ancora mistero sui destinatari delle operazioni. Per nulla misterioso, invece, è il caso Daki:proprio a Reggio Emilia è stato infatti arrestato il marocchino (amico di Mohamed Atta, capo degli attentatori dell’11 settembre) accusato di terrorismo internazionale.

Magdi Allam concentra poi la sua attenzione sul rispetto delle leggi da parte degli stranieri che abitano in Italia: «Lo Stato deve assumersi la responsabilità di fare rispettare le leggi. I musulmani residenti in Italia sono cittadini che - allo stesso modo di tutti quelli che vivono in questo Paese -, devono attenersi alle stesse leggi, affidarsi alle stesse istituzioni, e condividere i valori fondanti della società italiana. In particolare, la sacralità della vita di tutti».

Altro nodo cruciale, è il ruolo delle moschee: «Devono essere bonificate dall’illegalità e dalle prediche d’odio. Fra le loro mura non si deve più fare politica, non si deve più fare ideologia, non si deve più indottrinare, non si deve più arruolare la gente. Esse devono essere riscattate all’identità italiana:non devono essere gestite dall’Ucoii o dai Fratelli musulmani. È necessario cacciare i predicatori d’odio e chiudere le moschee dove questo avviene.

Va infine promosso un islam italiano in cui le moschee siano esclusivamente luoghi di culto».

Magdi Allam conclude poi il suo intervento riflettendo sul fatto che sul territorio reggiano è in programma la costruzione di diverse moschee: «Secondo autorevoli ricerche, ben il 95% dei musulmani che sono in Italia non frequenta luoghi di culto. Le moschee esistenti sono quindi più che sufficienti. Prima di autorizzarne di nuove, è assolutamente necessario bonificare quelle già esistenti, spesso mezzo privilegiato per l’indottrinamento ideologico. Non si può continuare a scherzare con il fuoco: questo non è più il tempo di sofismi e ambiguità».

L'INFORMAZIONE di Reggio Emilia, 1 agosto 2007


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