sabato 15 dicembre 2007

L'altro Risorgimento. Una guerra di religione dimenticata

Se si guarda alla storiografia ufficiale, quella insegnata ancora nelle cosiddette “scuole dell’obbligo”, si comprende come le nuove generazioni, ormai da piú di un secolo, siano state e siano educate con una serie di informazioni lacunose, spesso “di parte”, molte volte false. Cosí che delle tante vicende che compongono il racconto delle esperienze dei nostri padri abbiamo finito col farci un’idea che non corrisponde alla realtà e che continua a condizionare i nostri giudizi, non solo su quanto è accaduto, ma anche su quanto sta accadendo.

In verità, da alcuni lustri, si sono moltiplicati i lavori di “revisione storica”, ma essi restano appannaggio di pochi specialisti e appassionati. Tra questi lavori rientra il libro che qui segnaliamo: L’altro Risorgimento. Una guerra di religione dimenticata.

In esso l’Autrice tratta alcuni importanti aspetti di quella leggenda che vorrebbe far credere che l’unità d’Italia fu un appassionato lavoro di amor patrio fortemente contrastato dalla Roma reazionaria e papalina che vedeva come fumo negli occhi la libertà degli Italiani. Sulla scorta dei documenti dell’epoca, si compone invece un quadro complessivo nel quale i soggetti principali sono il liberalismo antireligioso piemontese che da quella sparuta minoranza che fu, riuscí a violentare il sentimento religioso della maggioranza dei Piemontesi e degli Italiani; l’odio contro ogni istituzione cattolica e la persecuzione sistematica a cui vennero sottoposti la Chiesa e i cattolici; l’arrivismo e l’ingordigia di potere di uomini politici che ancora oggi affollano le nostre piazze con le loro effigi di pietra.

Se è comprensibile che il passato debba essere rivisto con un certo spassionato distacco, non è accettabile che questo avvenga quando esso segna ancora fortemente il presente e il futuro prossimo. Leggendo questo libro, che parla di vicende apparentemente “vecchie”, è come se sotto gli occhi del lettore scorresse la falsariga di quanto è accaduto alla Chiesa e dentro la Chiesa da un quarantennio ad oggi. Con la differenza che la lotta alla Chiesa e alla Religione, allora condotta da tutti i suoi nemici dichiarati, oggi viene condotta dai suoi falsi amici utilizzando le stesse argomentazioni e quasi le stesse tecniche.

Fu in nome della libertà religiosa che si volle allora la fine dello Stato Pontificio, mentre in realtà si voleva la demolizione della Religione; ed è in nome della libertà religiosa che oggi si continua a perseguire la demolizione della Chiesa.

«Rifiutando la Rivelazione, i liberali non capiscono piú, e, non capendo, ritengono prive di senso le modalità dell’esistenza cristiana. I liberali non si limitano a non capire: giudicano ciò che non capiscono, lo condannano e lo negano. Ritengono assolutamente vero e giusto solo quanto è ritenuto tale dalla Ragione, che inevitabilmente finisce col coincidere con la loro ragione
«… l’ideologia liberale non rinuncia all’assoluto, cambia semplicemente il luogo in cui cercarlo e da Dio passa al Progresso. Appellandosi al progresso, e quindi al continuo cambiamento verso il meglio, il pensiero liberale trova una nuova fede e una nuova ragione di vita: la fede nella mancanza di assoluto. I liberali negano «in assoluto» la possibilità per l’uomo di fare scelte «assolute». La contraddizione è evidente e tuttavia sono in molti a non rendersene conto. Rifiutata la fede nella Rivelazione perché ascientifica, si finisce per credere «scientificamente» alla (propria) ragione.» (pp. 142-143)

Questa lunga citazione aiuta a comprendere lo spirito che ha finito col prevalere nell’Autrice, via via che si è addentrata nello studio delle vicende storiche del secolo scorso. C’è da augurarsi che molti preti modernisti si soffermino a leggerlo… chissà, potrebbe aprirsi in loro uno spiraglio di luce.

ANGELA PELLICCIARI, L’altro Risorgimento. Una guerra di religione dimenticata, Piemme Edizioni, Casale Monferrato, 2000, pp. 288, € 15,90.

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Meglio Opus Dei che gay E arrestatemi pure

di Gianluigi Paragone


Meglio gay che Opus Dei. C'è una foto - credo scattata durante una gaudente manifestazione pro Dico - che ritrae alcuni di questi ragazzotti con una finta mitra cartonata in testa, con la scritta "Meglio gay che Opus Dei". Ognuno ride per le battute che preferisce. A loro evidentemente piace molto visto che è uno sfottò parecchio di moda tra una certa sinistra anticlericale. E noi difendiamo il diritto di sfottere e ironizzare anche sulle cose più serie: siamo un Paese libero e con le spalle robuste. Mica come in certi Stati islamici dove se sfotti Maometto con una vignetta si scatena l'inferno e dove l'omosessualità costa la vita sul serio.

"Meglio gay che Opus Dei": se ne sono convinti, beati loro. Accade però che con quell'articoletto di legge che passa sotto il nome di norma anti-omofobia (termine che non c'entra un fico secco con il dibattito in corso) un rovesciamento dello slogan sarebbe punito. Cosa voglio dire? Questo: "Meglio gay che Opus Dei" si può dire, "Meglio Opus Dei che gay" no. Diventerebbe un'offesa, un pregiudizio, un atto di razzismo. Da condannare fino a tre anni di arresto. Perché il gay verrebbe preso come confronto dispregiativo.

Una potente lobby di cui non si parla

Ecco gli effetti del "pacchetto sicurezza" così come rischia di uscire dal Parlamento qualora passasse la linea della sinistra radicale e laicista. Capite bene che sarebbe delirante. Già oggi il potere discrezionale dei magistrati è infinitamente elastico, ci manca pure una norma del genere e poi possiamo metterci il bavaglio (prima che ce lo mettano gli altri). Non potremmo più criticare quelle politiche che spingono per i matrimoni gay o per le adozioni di figli da parte di coppie omosessuali. Non potremmo più criticare certe manifestazioni goliardiche, per non dire carnevalesche. Né potremmo spingerci a dire che oggi i gay sono una delle lobby più influenti in Europa.

Certo, qualcuno potrebbe non condividere il mio pensiero: ne parliamo. Ma ad armi pari.

Non che ai gay può essere permesso di annientare valori e principi sacri per la Chiesa, mentre per i cattolici che sostengono le loro idee scatta l'avviso di garanzia. Abbiamo derubricato la bestemmia, le offese al sentimento religioso e altro, ci manca solo che ora ripristiniamo i reati d'opinione. Perché? Un sospetto ce l'ho: perché più è arbitrario un potere (in questo caso quello giudiziario) e più si può colpire il nemico. La Chiesa e i cattolici ostacolano i Dico? Bene, montiamo una bella museruola e gliela mettiamo.

C'è chi obietta: è l'Europa che ce lo impone. E chi se ne frega.

L'Europa ha tante di quelle rogne da smazzarsi (a cominciare dal fatto che non riescono a far approvare uno straccio di Costituzione dai cittadini) e ci vengono a imporre trattati e decisioni calate dall'alto di chissà quali pensatoi? Ci facciano il piacere. L'Europa ha già rovinato le famiglie con l'euro, evitiamo di fargliele sfasciare del tutto con i matrimoni gay. Caspita, mi sto accorgendo che un articolo del genere rischierebbe di incorrere in sanzioni perché qualcuno ci potrebbe vedere pregiudizio discriminatorio contro gli omosessuali. Certo che no. La mia è un'opinione, pari a quella di chi si calza il cappello dei vescovi con la scritta "Meglio gay che Opus Dei". Perché lui dovrebbe avere più tutele di me?

Le lezioncine morali e le solite bugie

Quello della tutela dei gay sta diventando un tema di dibattito sbagliato nella prospettiva. Mi spiego. Dopo il voto della senatrice cattolica Paola Binetti (voto per il quale ha dovuto subire un processo imbarazzante) e dopo le minacce di Mastella di non approvare un testo definitivo contenente ancora quella norma, qualcuno a sinistra ha cominciato a spacciare per vera una fandonia: i cattolici sono contro la tutela delle minoranze discriminate e quindi anche dei gay. Poveri calimeri! Scusate, ma allora la Costituzione italiana che ci sta a fare? Per anni mi sono sorbito le lezioncine morali di chi considera la Costituzione una bibbia laica, una legge intoccabile in quanto perfetta e, soprattutto nella sua prima parte, sublime e ora dobbiamo tutelare le minoranze perché non ci sono norme adatte? Qui qualcuno sta raccontando qualche bugia. O la Costituzione ha le rughe oppure è ancora a tenuta stagna. Non può essere buona quando il governo Berlusconi decide di cambiarla, mentre è da rottamare se governano le ideologie della sinistra. E comunque, non sta scritto da nessuna parte che ci dobbiamo bere tutte le fesserie partorite dai geni di Bruxelles. Nel giro di breve tempo vedremo quale sarà la decisione di Prodi: se asseconderà la sinistra perseverando con la norma anti-omofobia oppure se prevarranno le ragioni riconosciute dalla maggioranza della gente. Qualora passassero le idee della sinistra, a rischiare non sarà solo il governo; sarà la libertà di opinione e la tenuta di valori largamente condivisi. Certe idee finora non sono passate perché la politica ha detto no; non vorremmo che ad aprire la breccia fosse come sempre la magistratura.

© Libero, 14 dicembre 2007

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Benedetto vara una nuova forza di peacekeeping, la famiglia

di Maurizio Crippa


Ambiente, nucleare, disarmo. Quando la maggior parte dei giornali fanno il titolo su altro, significa che Benedetto XVI ha toccato un punto nevralgico, che si vorrebbe evitare. Ma il titolo del messaggio per la Giornata mondiale della pace 2008, “Famiglia umana, comunità di pace”, chiarisce bene l’argomento che il Papa ha a cuore, sebbene non trascuri gli altri. Anzi, il Papa indica come “fondamentale”, sentire “la terra come ‘nostra casa comune’ e scegliere, per una sua gestione a servizio di tutti, la strada del dialogo piuttosto che delle decisioni unilaterali”. E non elude il nesso tra la gestione delle risorse e la giustizia sociale, ammonendo che non vanno “dimenticati i poveri, esclusi in molti casi dalla destinazione universale dei beni del creato”. Ratzinger capovolge però la prospettiva dei discorsi facili e generici, vagamente umanitaristi. Al centro, motore della pace e pietra di paragone della giustizia, c’è la famiglia. Se non si parte da qui, la partenza è sbagliata e i discorsi diventano retorica fumosa, o peggio.

E’ la novità di questa porta d’ingresso al grande tema della pace ciò che ha spiazzato la pigrizia dei giornali, ma che dovrebbe invece suscitare interesse. Benedetto XVI impone uno scatto di pensiero: “La prima forma di comunione tra persone è quella che l’amore suscita tra un uomo e una donna decisi a unirsi stabilmente per costruire insieme una nuova famiglia”. Pone la “famiglia naturale” come “prima e insostituibile educatrice alla pace”, non in forza di un apriori di fede, ma per realismo: “La famiglia è fondamento della società anche per questo: perché permette di fare determinanti esperienze di pace”.

Non è un testo dottrinale, è il messaggio di Capodanno che il Pontefice invia per riflessione al mondo, compresi i capi di stato e delle organizzazioni internazionali – anzi in primis: proprio a questo scopo Paolo VI aveva istituito nel 1968 la Giornata della pace. Qui c’è dunque il Ratzinger pastorale, concreto e attento alle cose di quaggiù, capace di guardare l’esperienza naturale delle persone. Ed è esperienza naturale di chiunque che la radice morale dell’ingiustizia, e perciò dei conflitti, non sia un problema solo dei governi. Procede per analogia, Benedetto XVI, e richiama così anche i politici e i capi di stato a una visione realista dei problemi. Riprende con sapienza le parole semplici della tradizionale visione sociale cattolica. La famiglia – quella naturale – diventa in essa il modello della “famiglia umana”, cioè dell’umanità considerata come una sola famiglia. E allora l’ambiente diventa non un totem (“rispettare l’ambiente non vuol dire considerare la natura materiale o animale più importante dell’uomo”), bensì la “casa comune” dell’umanità. Cioè un luogo che va trattato con amore, pulizia e responsabilità, dividendo equamente le spese e non “egoisticamente a completa disposizione dei propri interessi”. Così la giustizia: “Il riferimento alla famiglia naturale si rivela, anche da questo punto di vista, singolarmente suggestivo”, scrive il Papa: “Occorre promuovere corrette e sincere relazioni tra i singoli esseri umani e tra i popoli, che permettano a tuttidi collaborare su un piano di parità e di giustizia. Al tempo stesso, ci si deve adoperare per una saggia utilizzazione delle risorse e per un’equa distribuzione della ricchezza”. E così fino alla necessaria pace, che è frutto di una visione antropologicamente ben fondata: “In una sana vita familiare si fa esperienza di alcune componenti fondamentali della pace: la giustizia e l’amore tra fratelli e sorelle, la funzione dell’autorità espressa dai genitori, il servizio amorevole ai membri più deboli perché piccoli o malati o anziani, l’aiuto vicendevole nelle necessità della vita, la disponibilità ad accogliere l’altro e, se necessario, a perdonarlo”. Esiste una norma morale per la famiglia, ed “esistono norme giuridiche per i rapporti tra le Nazioni che formano la famiglia umana”. Bisogna insomma risalire alla norma morale naturale come base della norma giuridica, “altrimenti questa resta in balia di fragili e provvisori consensi”. E in questa logica stringente non può essere che duro – in quanto contrario alla pace, oltre che alla morale – il giudizio sui nemici della famiglia: “Pertanto, chi anche inconsapevolmente osteggia l’istituto familiare rende fragile la pace nell’intera comunità, nazionale e internazionale, perché indebolisce quella che, di fatto, è la principale ‘agenzia’ di pace”.

© Il Foglio, 13 dicembre 2007

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Identità e disgregazione

Identità e disgregazione sono caratteri dei tempi odierni. Una riflessione di Gianfranco Ravasi intorno a questi temi ci aiuta a guardare al mondo proprio mentre riscopriamo la nostra identità. E ci ricorda che nella molteplicità si può trovare l'unità perfetta, principio che non ha confini di stato, popolo o nazione.


Chi non ricorda non vive


di Gianfranco Ravasi

È un binomio che spesso ricorre nei saggi che cercano di decifrare i percorsi dell'epoca che stiamo attraversando, e questa coppia di termini viene spontaneamente intesa in senso "polare": infatti, identità, da una parte, e disgregazione, dall'altra, sono come i poli estremi e antitetici della vicenda umana e sociale che stiamo vivendo. Questo è certamente vero ed è su tale percorso che si muove la rassegna cinematografica "Tertio millennio". Tuttavia se si scava più in profondità all'interno di questi due antipodi esistenziali e storici, si può forse individuare in ciascuno di essi quasi due volti anch'essi posti in antitesi.

Partiamo, dunque, dall'identità: è indubbio che essa costituisce un valore positivo che ai nostri giorni si fa sempre più stinto fino a rivelarsi talvolta estinto. Si tratta della propria storia, della memoria, delle radici, di quel passato che spiega il nostro presente: certo, esso trascina con sé anche scorie ma rappresenta la linfa vitale dello stesso nostro essere ed esistere. L'apolide che non ha identità è solo apparentemente libero, in realtà è un disperso, senza grembo e calore. Purtroppo la cultura contemporanea è sempre più smemorata e quindi incapace di "riportare al cuore" - come dice la stessa etimologia del "ricordo" - i suoi valori, le sue ricchezze interiori e comunitarie, la sua fisionomia, dilapidando la sua eredità. Un grande filologo come Giorgio Pasquali nella sua opera Filologia e storia (1920) giustamente annotava che "chi non ricorda non vive".

Detto questo, dobbiamo riconoscere che un aggrapparsi eccessivo ed esclusivo alla propria identità può diventare patologico. Sboccia, infatti, nelle anime la grettezza, nei popoli il nazionalismo, nelle religioni il fondamentalismo, nelle culture l'integralismo. Lo scrittore francese André Gide nel suo Diario osservava che "il nazionalista (come anche il fondamentalista) ha un grande odio e un piccolo amore". Sì, perché la detestazione dell'altro è molto più forte e veemente dell'amore per la propria identità spirituale e civile. Si procede, così, seguendo questa via verso la deriva del rigetto di tutto ciò che non si identifica con se stessi, e l'aggressività con cui si reagisce verso il diverso è, in realtà, segno di paura e di debolezza proprio nei confronti della capacità di tutela dell'identità.

Passiamo all'altro vocabolo, disgregazione. È ben evidente la connotazione negativa: il termine suggerisce dispersione e dissoluzione, un po' come accade quando si staccano le tessere di un mosaico, che a terra creano solo cumuli di colori confusi. Babilonia, la città della divisione, è anche la sede dell'incomunicabilità e dell'incomprensione. Come si dice nel libro della Genesi (11, 7), "confondiamo la loro lingua e non si comprenderanno l'un l'altro".

Fiorisce, così, una sorta di anarchia che impedisce progetti comuni. Il Cacciaguida dantesco, nel canto XVI del Paradiso, ricorda che "Sempre la confusion delle persone / principio fu del mal della cittade". Su questo tema è stato ormai detto tutto il necessario e la sociologia ha condotto tutte le analisi possibili.

Ribadito questo giudizio severo sulla disgregazione dei popoli e delle culture, bisogna però ricordare che sotto questa parola così negativa può celarsi un fermento fecondo. Quella che potremmo identificare come pluralità che si oppone a ogni forma di monolitismo socio-culturale e a ogni globalizzazione imposta e forzosa. Nella disgregazione può, infatti, manifestarsi in forma esasperata un'istanza di disaggregazione che impedisce appunto l'essere gregge o branco senza una coscienza personale e un'individualità creativa. Illuminante è, al riguardo, l'immagine di san Paolo quando, forse ricorrendo a una metafora di genesi stoica, compara la Chiesa a un corpo nel quale si conservano in equilibrio armonico sia l'unità sia la molteplicità, per cui "molte sono le membra e uno solo è il corpo e non può l'occhio dire alla mano: Non ho bisogno di te, né la testa ai piedi: Non ho bisogno di voi" (Prima lettera ai Corinzi, 12, 20-21).

Antonin Artaud, grande teorico del teatro, era fermamente convinto che il cinema "giocasse innanzitutto e soprattutto con la pelle umana delle cose, col derma della realtà", incapace di scavare in profondità, nell'essenza intima delle vicende e dell'essere. Ad onor del vero, la storia del cinema - e, nel suo piccolo, questa rassegna - testimonia che anche quest'arte sa penetrare oltre la superficie degli eventi. E lo fa centrando uno snodo così strategico e drammatico com'è appunto quello che intreccia identità e disgregazione.

© L'Osservatore Romano, 10-11 dicembre 2007

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martedì 11 dicembre 2007

I Savoia e la Chiesa Ortodossa

Grazie alle preziose informazioni fornitemi da Massimo a proposito dei culti tollerati in Italia prima dell'unità (vedi post "Il Vuoto" su Il Consiglio dell'Abate Vella), ho scoperto che la Chiesa Ortodossa vanta (letteralmente) uno storico legame con casa Savoia. Curiosamente, indovinate un po' dove ho trovato questa informazione? Sul sito dell'Arcidiocesi di Palermo della Chiesa Ortodossa Autocefala Ucraina. Riporto fedelmente il testo in questione, senza volere scatenare necessariamente una polemica. Dico solo che trovo quanto meno singolare il fatto che gli ortodossi si vantino di questo legame con la casa regnante colonizzatrice dicendo addirittura che: "[...] i Savoia unificarono l'Italia, portando agli italiani, per la prima volta dal medioevo, un senso di libertà religiosa" (sic!). Tra le righe (e neanche troppo) si legge financo una certa nostalgia per la fine della monarchia sabauda quando si dice che: "[i] legami dei Savoia con l'Ortodossia [...] sarebbero stati meglio conosciuti in Italia se il Paese fosse rimasto una monarchia dopo il 1946"). Si accettano opinioni. Io dico subito la mia: questa, insieme a tante altre testimonianze storiche, dimostra la subalternità delle Chiese Autocefale Ortodosse al potere politico.


Rapporti tra la Chiesa Ortodossa e la Casa di Savoia

Storicamente, i protettori dell'Ortodossia sono stati i sovrani dei Paesi dove le varie giurisdizioni nazionali Ortodosse esistono ancora. A loro volta, ire governavano per mezzo della grazia di Dio, incarnatasi nella Chiesa e nei suoi vescovi; molte incoronazioni europee sono ancora ceremonie religiose Ortodosse, Romano-Cattoliche o Protestanti.

Le ultime comunità Ortodosse native in Veneto, Puglia, Calabria e Sicilia sono state gradualmente latinizzate nel XIV e nel XVII secolo persino le parrocchie fondate dagli Albanesi sfuggiti alle conquiste turchi nei Balcani, site nell'Italia meridionale, erano diventate "uniati", cioè congregazioni romano-cattoliche che celebravano col rito bizantino. Nel XX secolo, alcuni collegamenti dinastici fra le case reali Ortodosse sonostati stabiliti con la casa reale italiana, concentrandosi nelle famiglie reali Ortodosse dei Paesi balcanici.

I Savoia governarono in nord Italia (Piemonte) per secoli. A partire dall'800 la dinastia dichiarò una notevole tolleranza religiosa dei protestanti (Valdesi) ed ebrei, e ad alcuni di questi ottennero il titolo di baroni. In questo modo i Savoia, anche se romano-cattolici, si differenziavano dai reali del Sud, i Borboni di Napoli, che, al contrario, concedevano solamente chiese cattoliche in Sicilia. A partire dal 1870, i Savoia unificarono l'Italia, portando agli italiani, per la prima volta dal medioevo, un senso di libertà religiosa.

Nel 1896 il Principe Vittorio Emanuele, futuro re d'Italia (regnò per 45 anni) sposò la statuaria Elena Petrovic, figlia di Nicola I del Montenegro. Ellafu la prima regina italiana nei secoli a manifestare un particolare interesse inopere di carità nei confronti del popolo. Ortodossa devota, accettò ilcattolicesimo per ragioni dinastiche per sposare l'erede al trono italiano ma fececostruire una cappella ortodossa nel Quirinale. Nel 1930 sua figlia, Giovanna, sposò Boris III, re di Bulgaria. (Il loro figlio, re Simeon, è l'attuale Primo Ministro di Bulgaria.) Ella si convertì all'Ortodossia e morì nel 2000, dopo aver riscontrato grande popolarità tra il popolo bulgaro. Altri membri di Casa Savoia si sposarono con membri di altre dinastie ortodosse, diventando anch'essi ortodossi. Nel 1939 Aimone, Duca d'Aosta, sposò Irene, figlia del Re Costantino I di Grecia. Nel 1955 Maria Pia, figlia di Umberto II d'Italia (che regnò brevemente nel 1946) sposò il Principe Alessandro di Iugoslavia.

I legami dei Savoia con l'Ortodossia, e particolarmente con le Chiese balcaniche, sarebbero stati meglio conosciuti in Italia se il Paese fosse rimasto una monarchia dopo il 1946. I tempi cambiano ma la Chiesa Ortodossa rimane.


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domenica 2 dicembre 2007

Cosa significa la bellissima enciclica di Benedetto XVI sulla speranza

Un testo bellissimo da leggere e meditare…

di Antonio Socci

Una bomba. E’ la nuova enciclica di Benedetto XVI, “Spe salvi” dove non c’è neanche una citazione del Concilio (scelta di enorme significato), dove finalmente si torna a parlare dell’Inferno, del Paradiso e del Purgatorio (perfino dell’Anticristo, sia pure in una citazione di Kant), dove si chiamano gli orrori col loro nome (per esempio “comunismo”, parola che al Concilio fu proibito pronunciare e condannare), dove invece di ammiccare ai potenti di questo mondo si riporta la struggente testimonianza dei martiri cristiani, le vittime, dove si spazza via la retorica delle “religioni” affermando che uno solo è il Salvatore, dove si indica Maria come “stella di speranza” e dove si mostra che la fiducia cieca nel (solo) progresso e nella (sola) scienza porta al disastro e alla disperazione.
Benedetto XVI, del Concilio, non cita neanche la “Gaudium et spes”, che pure aveva nel titolo la parola “speranza”, ma spazza via proprio l’equivoco disastrosamente introdotto nel mondo cattolico da questa che fu la principale costituzione conciliare, “La Chiesa nel mondo contemporaneo”. Il Papa invita infatti, al n. 22, a “un’autocritica del cristianesimo moderno”. Specialmente sul concetto di “progresso”. Per dirla con Charles Péguy, “il cristianesimo non è la religione del progresso, ma della salvezza”. Non che il “progresso” sia cosa negativa, tutt’altro e moltissimo esso deve al cristianesimo come dimostrano anche libri recenti (penso a quelli di Rodney Stark, “La vittoria della Ragione” e di Thomas Woods, “Come la Chiesa Cattolica ha costruito la civiltà occidentale”). Il problema è l’ “ideologia del progresso”, la sua trasformazione in utopia.

Il guaio grave della “Gaudium et spes” e del Concilio fu quello di mutare la virtù teologale della “speranza” nella nozione mondanizzata di ”ottimismo”. Due cose radicalmente antitetiche, perché, come scriveva Ratzinger, da cardinale, nel libro “Guardare Cristo”: “lo scopo dell’ottimismo è l’utopia”, mentre la speranza è “un dono che ci è già stato dato e che attendiamo da colui che solo può davvero regalare: da quel Dio che ha già costruito la sua tenda nella storia con Gesù”.

Nella Chiesa del post-Concilio l’ “ottimismo” divenne un obbligo e un nuovo superdogma. Il peggior peccato diventò quello di “pessimismo”. A dare il là fu anche l’ “ingenuo” discorso di apertura del Concilio fatto da Giovanni XXIII, il quale, nel secolo del più grande macello di cristiani della storia, vedeva rosa e se la prendeva con i cosiddetti “profeti di sventura”: “Nelle attuali condizioni della società umana” disse “essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e arrivano fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia… A Noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo”.

Roncalli fu ritenuto, dall’apologertica progressista, depositario di un vero “spirito profetico”, cosa che si negò – per esempio – alla Madonna di Fatima la quale invece, nel 1917, metteva in guardia da orribili sciagure, annunciando la gravità del momento e il pericolo mortale rappresentato dal comunismo in arrivo (dopo tre mesi) in Russia. Si verificò infatti un oceano di orrore e di sangue. Ma 40 anni dopo, nel 1962, allegramente – mentre il Vaticano assicurava Mosca che al Concilio non sarebbe stato condannato esplicitamente il comunismo e mentre si “condannavano” a mille vessazioni santi come padre Pio – Giovanni XXIII annunciò pubblicamente che la Chiesa del Concilio preferiva evitare “condanne” perché anche se “non mancano dottrine fallaci… ormai gli uomini da se stessi sembra siano propensi a condannarli”.

E infatti di lì a poco si ebbe il massimo dell’espansione comunista nel mondo, non solo con regimi che andavano da Trieste alla Cina e poi Cuba e l’Indocina, ma con l’esplosione del ’68 nei Paesi occidentali che per decenni furono devastati dalle ideologie dell’odio. Pochi anni dopo la fine del Concilio Paolo VI tirava il tragico bilancio, per la Chiesa, del ”profetico” ottimismo roncalliano e conciliare: “Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza…L’apertura al mondo è diventata una vera e propria invasione del pensiero secolare nella Chiesa. Siamo stati forse troppo deboli e imprudenti”, “la Chiesa è in un difficile periodo di autodemolizione”, “da qualche parte il fumo di Satana è entrato nel tempio di Dio”.

Per questa leale ammissione, lo stesso Paolo VI fu isolato come “pessimista” dall’establishment clericale per il quale la religione dell’ottimismo “faceva dimenticare ogni decadenza e ogni distruzione” (oltre a far dimenticare l’enormità dei pericoli che gravano sull’umanità e dogmi quali il peccato originale e l’esistenza di Satana e dell’inferno). Ratzinger, nel libro citato, ha parole di fuoco contro questa sostituzione della “speranza” con l’ “ottimismo”. Dice che “questo ottimismo metodico veniva prodotto da coloro che desideravano la distruzione della vecchia Chiesa, con il mantello di copertura della riforma”, “il pubblico ottimismo era una specie di tranquillante… allo scopo di creare il clima adatto a disfare possibilmente in pace la Chiesa e acquisire così dominio su di essa”.

Ratzinger faceva anche un esempio personale. Quando esplose il caso del suo libro intervista con Vittorio Messori, “Rapporto sulla fede”, dove si illustrava a chiare note la situazione della Chiesa e del mondo, fu accusato di aver fatto “un libro pessimistico. Da qualche parte” scriveva il cardinale “si tentò perfino di vietarne la vendita, perché un’eresia di quest’ordine di grandezza semplicemente non poteva essere tollerata. I detentori del potere d’opinione misero il libro all’indice. La nuova inquisizione fece sentire la sua forza. Venne dimostrato ancora una volta che non esiste peccato peggiore contro lo spirito dell’epoca che il diventare rei di una mancanza di ottimismo”.

Oggi Benedetto XVI, con questa enciclica dal pensiero potente (che valorizza per esempio i “francofortesi”), finalmente mette in soffitta il burroso “ottimismo” roncalliano e conciliare, quell’ideologismo facilone e conformista che ha fatto inginocchiare la Chiesa davanti al mondo e l’ha consegnata a una delle più tremende crisi della sua storia. Così la critica implicita non va più solo al post concilio, alle “cattive interpretazioni” del Concilio, ma anche ad alcune impostazioni del Concilio. Del resto già un teologo del Concilio come fu Henri De Lubac (peraltro citato nell’enciclica) scriveva a proposito della Gaudium et spes: “si parla ancora di ‘concezione cristiana’, ma ben poco di fede cristiana. Tutta una corrente, nel momento attuale, cerca di agganciare la Chiesa, per mezzo del Concilio, a una piccola mondanizzazione”. E persino Karl Rahner disse che lo “schema 13”, che sarebbe divenuto la Gaudium et spes, “riduceva la portata soprannaturale del cristianesimo”. Addirittura Rahner ! Ratzinger visse il Concilio: è l’autore del discorso con cui il cardinale Frings demolì il vecchio S. Uffizio che non pochi danni aveva fatto. E oggi il pontificato di Benedetto XVI si sta qualificando come la chiusura della stagione buia che, facendo tesoro delle cose buone del Concilio, ci ridona la bellezza bimillenaria della tradizione della Chiesa. Non a caso nell’enciclica non è citato il Concilio, ma ci sono S. Paolo e Gregorio Nazianzeno, S. Agostino e S. Ambrogio, S. Tommaso e S. Bernardo. Un’enciclica bella, bellissima. Anche poetica, che parla al cuore dell’uomo, alla sua solitudine e ai suoi desideri più profondi. E’ consigliabile leggerla e meditarla attentamente.

Da “Libero”, 1 dicembre 2007

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sabato 1 dicembre 2007

138 musulmani scrivono al Papa

Ancora una volta la Chiesa ci toglierà le castagne dal fuoco. La lezione tenuta dal Papa a Ratisbona lo scorso anno sta raccogliendo i frutti sperati, nonostante la distorsione resa dai media e le ostilità dell'intellighenzia occidentale. Già quasi all'indomani della lectio magistralis, 38 intellettuali musulmani avevano scritto a Benedetto XVI, ma ora sembra che si stia dischiudendo un dialogo durevole, su base più ampia. Analogamente allo storico riavvicinamento con gli ortodossi, dobbiamo il merito di questo nuovo dialogo, proficuo e necessario, con il mondo musulmano alla lungimiranza e alla levatura intellettuale di Joseph Ratzinger.


Un fatto inedito

Segnato da un versetto tratto dal Corano - "Venite a una parola comune tra noi e voi: che non adoriamo altri dei che Dio, e non associamo a lui cosa alcuna, e che nessuno di noi scelga altri signori accanto a Dio" - il 13 ottobre scorso si è verificato un fatto certamente storico nell'ultramillenario cammino delle relazioni tra cristiani e musulmani.

Centotrentotto personalità musulmane - tra loro intellettuali e guide religiose - alla fine del Ramadan, firmarono e resero pubblica una "lettera aperta e appello", rivolta al Papa, ma anche al Patriarca ecumenico, ai capi delle Chiese ortodosse, all'arcivescovo di Canterbury, ai più alti responsabili luterani, metodisti, battisti e riformati, al segretariato del Consiglio Ecumenico delle Chiese e alle guide delle Chiese cristiane. Insomma è stata indirizzata a tutti quelli che non adorano "altri dei che Dio" per sottolineare come da un confronto costruttivo tra i passi scelti del Corano e della Bibbia scaturisca la comune convinzione "del primato dell'amore e della devozione a Dio" e la valorizzazione dell'amore fraterno.

"Come musulmani - si legge nella lettera - noi diciamo ai cristiani che non siamo contro di loro e che l'islam non è contro di loro, a meno che loro non intraprendano la guerra contro i musulmani a causa della loro religione, li opprimano e li privino delle loro case". E ancora: "E a quelli che ciononostante provano piacere nel conflitto e nella distruzione, o stimano che alla fine riusciranno a vincere, noi diciamo che le nostre anime eterne sono in pericolo se non riusciremo a fare sinceramente ogni sforzo per la pace e a giungere ad un'armonia condivisa".

"Con questa iniziativa - si legge in un articolo del gesuita Christian W. Troll, che sarà pubblicato nel numero de "La Civiltà Cattolica" di sabato prossimo, 1° dicembre, a commento della Lettera - si va delineando una sorta di ecumenismo islamico".

Sta di fatto che tra i centotrentotto firmatari figurano eminenti personalità in rappresentanza degli ambienti islamici più diversi e compositi a significare l'oggettivo valore dell'iniziativa. "Senza dubbio - scrive ancora padre Troll - la lettera dei capi e degli intellettuali religiosi musulmani merita di essere presa in attenta considerazione, e in particolare dal mondo cristiano. Per coloro che, come chi scrive, si trovano impegnati da decenni nel dialogo religioso tra cristiani e musulmani, è già interessante il solo fatto di voler raggiungere un ampio consenso tra le personalità che hanno compiti di guida nel mondo musulmano".

Si tratta di uno sforzo, scrive ancora padre Troll, "che la Chiesa può soltanto accogliere di buon occhio, poiché ha bisogno di un dialogo qualificato con il mondo non cristiano".
La risposta del Papa apre orizzonti concreti a questa speranza. (m.p.)

(©L'Osservatore Romano - 30 novembre 2007)

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Gli ortodossi riconoscono il primato di Roma

Agli ideologi della Chiesa Siciliana Autocefala forse non farà piacere sapere che la fine dello scisma delle chiese orientali è sempre più vicina. Grazie al cammino comune intrapreso da cattolici e ortodossi, sotto la spinta provvidenziale di Benedetto XVI, le chiese soggette a Cesare diverranno sempre più anacronistiche. L'universalità è infatti il verbo di domani: una Chiesa universale unita e, soprattutto, svincolata dal potere politico. Non è infatti un caso che i maggiori ostacoli a questo cammino di riunificazione vengano proprio dalla Chiesa russa, quella più assoggettata al potere politico e che non perdona al Vaticano l'attività anti-comunista delle diocesi cattoliche nell'ex Urss.


La storica affermazione in un documento di 46 paragrafi una vera road map. Ancora da studiare il ruolo dei vescovi

Gli ortodossi: "Il Papa è il primo patriarca"
Si apre la strada per la riunificazione

di MARCO POLITI

CITTA' DEL VATICANO

Il Papa è il "primo dei patriarchi", Roma è la "prima sede", la Chiesa di Roma "presiede nell'amore". Nero su bianco un documento congiunto della Chiesa cattolica e delle Chiese ortodosse fissa definitivamente e in maniera inequivocabile il primato del romano pontefice, spianando la strada alla riunificazione di cattolici e ortodossi divisi dallo scisma del 1054.

Il documento riservato è il frutto del vertice di ottobre a Ravenna, dove una delegazione cattolica guidata dal cardinale Kasper e una delegazione panortodossa guidata dal metropolita Zizioulas del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli hanno gettato le basi per un approfondimento delle questioni da risolvere per ristabilire l'unità.
Sono 46 paragrafi, una vera e propria road map, che indica il percorso dei temi da sviscerare per potere dichiarare superate le divisioni del passato. Dunque, il riconoscimento del primato romano c'è, ma subito viene chiarito che dovrà essere studiato "il ruolo del vescovo della prima sede" nell'ambito della comunità ecclesiale. In altre parole bisognerà definire quali sono le "prerogative" del vescovo di Roma, tenuto conto che sull'argomento ci sono opinioni molto differenti.
Il documento delinea tre concetti fondamentali: comunione ecclesiale, conciliarità, autorità. Entrambe le parti concordano che il vescovo è il capo della Chiesa locale e che nessuno può sostituirsi a lui. Entrambe concordano nel riconoscere che "l'unica e santa Chiesa" si realizza contemporaneamente in ogni Chiesa locale, che celebra l'eucaristia, e nella comunione di tutte le Chiese.

C'è accordo anche sulle strutture della Chiesa universale. A livello locale l'autorità è il vescovo. A livello regionale un gruppo di Chiese riconosce al proprio interno un "primo" (protos, in greco). Più articolata la questione del livello globale: qui gli esperti avranno molto da lavorare. Perché il documento afferma che sul piano universale "coloro che sono i primi nelle differenti regioni, insieme a tutti i vescovi, cooperano in ciò che riguarda la totalità della Chiesa". E in questo contesto si sottolinea che "i primi devono riconoscere chi è il primo tra di loro".

Ma per assicurare la concordia - scandisce la road map ecumenica - serve la conciliarità: cioè la cooperazione comune tra tutti. Tutti i vescovi dell'orbe cristiano, è detto, non devono essere solamente uniti tra di loro nella fede, ma "hanno anche in comune la stessa responsabilità e lo stesso servizio nei confronti della Chiesa". I concili sono lo "strumento principale" attraverso cui si esprime la comunione della Chiesa.
Insomma, il mondo ortodosso mette in chiaro che il vescovo di Roma non può immaginarsi di essere un sovrano totalitario, che decide da solo o si sostituisce ai livelli locali.

D'altronde lo stesso Ratzinger affermò in passato varie volte che il romano pontefice non può comportarsi da "monarca assoluto". Un brano del testo (riferito allle autorità regionali) ha il suono di un monito preciso: "Il primo non può fare niente senza il consenso di tutti".

Il pontefice, peraltro, è sempre nominato nel testo come vescovo di Roma o come uno dei cinque patriarchi storici.
Ora tocca a papa Ratzinger. Solo lui può dare l'impulso a procedere. Per il 23 novembre il pontefice ha convocato tutti i cardinali del mondo per una riunione, che all'ordine del giorno ha proprio l'ecumenismo. Il documento cattolico-ortodosso costituirà la base del dibattito.

Nel frattempo Benedetto XVI sta riformano il Sinodo dei vescovi, il parlamento consultivo dell'episcopato mondiale che si tiene ogni tre anni: verranno dati più delegati alle Chiese orientali cattoliche - ponte verso l'Ortodossia - che hanno oltre venticinque vescovi, ci sarà più spazio per la discussione e saranno riformati i gruppi di lavoro.

Benedetto XVI ha manifestato fin dalla sua elezione la volontà di fare "passi concreti" in direzione dell'avvicinamento fra le Chiese cristiane. Ma ci sono anche difficoltà in campo ortodosso.
Il patriarca Alessio di Mosca è recalcitrante nel riconoscere il primato del patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I e al tempo stesso non perdona al Vaticano l'attività delle diocesi cattoliche nell'ex Urss. A Ravenna i suoi rappresentanti hanno abbandonato la riunione perché la Chiesa ortodossa di Estonia si era aggregata al patriarcato ecumenico di Costantinopoli.


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