domenica 22 giugno 2008

Sinistra italiana, razzismo anti-siciliano

L'intellighenzia di sinistra colpisce ancora, il suo bersaglio preferito sempre la Sicilia e i Siciliani. Fabio Cannizzaro, vicesegretario FNS e presidente di Fokus Trinakria, risponde all'ennesimo attacco razzista alla sicilianità mosso dalla solita, becera, anacronistica intellighenzia di sinistra italiana sulle pagine de La Repubblica, edizione di Palermo.


L'articolo de La Repubblica (delle banane) - trasudante razzismo e interessata ignoranza - e la risposta di Fabio Cannizzaro vengono riproposte dal blog La Questione Siciliana, di area FNS.

Condivido totalmente la risposta di Fabio Cannizzaro. Voglio solo aggiungere che sulla Vandea avrebbe potuto dire di più. L'accostamento della Sicilia alla Vandea fatto dalla pseudo-giornalista di Repubblica, per quanto mi riguarda è un vanto!

La Vandea infatti resistette valorosamente - fino al martirio di massa - a quella Rivoluzione francese di massoni-illuminati-giacobini assetati di potere che, nel nome della dea Ragione, intese constuire una Contro Chiesa, una contro civiltà opposta a mille anni di civiltà cristiana dei popoli europei.

Vorrei rendere giustizia alla storia della Vandea proponendovi un interessante brano dello scrittore cattolico Vittorio Messori. Scrive Messori (1):

"[...] nell'anno del bicentenario della Rivoluzione francese, molti cattolici - qualche vescovo non escluso - sono sembrati volersi liberare, con un silenzio imbarazzato, dei tremila preti massacrati, della folla di religiose violentate e spesso torturate sino alla morte, delle decine e decine di migliaia di contadini fatti a pezzi nelle province insorte in nome di una religione cui non volevano rinunciare.

Non ci sono solo gli orrori della Vandea, per il cui sterminio sistematico gli storici parlano di primo genocidio della storia moderna e dove i giacobini anticiparono contro quei popolani fermi nella loro fede i tentativi di « soluzione finale » dei nazisti nei riguardi degli ebrei. I massacri e le persecuzioni dei credenti si verificarono ovunque, non solo nell'Ovest: prima in Francia e poi negli altri Paesi, Italia compresa, dove la Rivoluzione giunse. Ma se la Vandea fu indomabile è anche perché era stata il teatro delle predicazioni di uno dei santi più cari a Giovanni Paolo II che, si dice, medita di proclamarlo dottore della Chiesa: Louis-Marie Grignion de Monfort.

Secondo lo schema conformistico, l'Ovest della Francia si sarebbe sollevato contro la Parigi dei giacobini spintovi dagli aristocratici e dal clero che intendevano conservare i loro privilegi. È una mistificazione che da tempo è stata smascherata ma che è ancora ripetuta nei testi scolastici, contro l'evidenza dei documenti: i quali mostrano senza possibilità di dubbio che la rivolta venne dal basso, dal popolo che, spesso, con la sua iniziativa, travolse le esitazioni del clero e dei nobili (molti di questi ultimi preferirono la via della fuga all'estero piuttosto che l'assumere le loro responsabilità). Insurrezione, dunque, popolare e - pur nelle contraddizioni e negli errori di ogni cosa umana - non « politica » e nemmeno « sociale » ma essenzialmente religiosa, contro la scristianizzazione alla quale, nella capitale, intendeva procedere una minoranza di feroci ideologi.

Delle ideologie moderne, del resto, nessuna ebbe una base davvero popolare: il marxismo non è mai riuscito a raggiungere il potere attraverso libere elezioni e, dov'era al potere, è caduto senza che nessuno muovesse un dito per difenderlo; il 25 lugliodel 1943, per porre fine al fascismo, bastarono un annuncio alla radio e un manifesto appeso alle cantonate; con la caduta di Berlino il nazismo si dissolse. Né, d'altro canto (neppur questo va dimenticato, a dispetto delle retoriche), il popolo aveva impugnato le armi in difesa del liberalismo quando Mussolini e Hitler vi avevano posto fine. Per stare alla Rivoluzione francese, il popolo accolse senza batter ciglio l'autoritarismo napoleonico che strangolò gli
« immortali princìpi » dell'89.

L'insorgere delle masse in difesa del cristianesimo nell'Occidente della Francia (e, più tardi, in Italia, nel Tirolo, nella Spagna invasa da Napoleone) è dunque un unicum che sorprende gli storici. In ogni caso, è giustizia non rimuoverlo, come per troppo tempo si è fatto in nome del conformismo di benpensanti che temono di essere dalla
« parte sbagliata » della storia. Oltretutto, oggi, anche i laici più onesti sono sempre meno sicuri che « sbagliata » lo fosse davvero."

Ecco, l'associazione della Sicilia alla Vandea, addirittura in senso dispregiativo, rientra perfettamente negli schemi - ormai beceri - costruiti dalle minoranze culturali europee al potere per negare la storia vera dei popoli e far comparire come "reazionari", "clericali", "arretrati" chi non si piega, chi insorge, chi non abiura alla propria identità. La Sicilia, come la Vandea, da troppo tempo è vittima di questo tipo di attacchi - che oggi definiremmo mass-mediatici - il cui unico scopo è avvilirne l'orgoglio identitario e bloccarne sul nascere ogni possibile tentativo di riscatto.

Se le armi del nostro nemico sono questi cliché che fanno leva sulla mistificazione e sulla manipolazione della storia, dobbiamo allora fare del nostro meglio per divulgare la vera storia della Sicilia e dei Siciliani. E dobbiamo non avere nessuna pietà nei confronti della mentalità conformista contemporanea che si crogiola nella sua crassa ignoranza.

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(1) Vittorio Messori, Pensare la storia, Una lettura cattolica dell'avventura umana, Sugarco Edizioni, Milano.

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Bruxelles contro i popoli europei

Il no del popolo irlandese al Trattato della UE è il sintomo di un malessere più grande che attraversa l'Europa. Tra le questioni da sottolineare c'è la percezione di una intrusione delle istituzioni europee che attaccano i valori condivisi da tante parte del popolo europeo, come famiglia e vita. Come dimostra la denuncia di costituzionalisti e associazioni, riportata da Il Giornale, e il riferimento fatto dal Papa nel suo discorso a Brindisi.

di Riccardo Cascioli


“Fuori dall’Unione chi ostacola il processo di integrazione”. Nel presidente della Repubblica Giorgio Napolitano deve essere scattato il riflesso condizionato del vecchio leader comunista, se ha reagito con queste parole al no del popolo irlandese nel referendum convocato per ratificare il Trattato dell’Unione Europea. Aldilà delle questioni politiche legate alla vicenda non si può non rilevare come ogni volta che le materie riguardanti la Ue passano al vaglio dei popoli vengano sistematicamente bocciate. Invece di lanciare scomuniche e invocare epurazioni, visto che nelle democrazie il popolo è sovrano sarebbe invece da interrogarsi su questo scollamento tra governi e popoli, tra istituzioni di Bruxelles e cittadini europei.

Un problema è senz’altro rappresentato dal fatto che mentre i trattati su cui si vota sono essenzialmente incomprensibili per il cittadino medio, è invece molto ben concreta l’intrusione dell’Unione Europea nella vita dei cittadini e la sua ostilità verso i valori ampiamente condivisi dalla gente.

A questo proposito è molto interessante un articolo di Andrea Tornielli apparso sul Giornale dell’11 giugno scorso in cui la professoressa Marta Cartabia, docente di Diritto Costituzionale a Milano, e Giorgio Salina, presidente della Fondazione Europa, hanno denunciato il “colonialismo giurisdizionale” della UE, ovvero quel fenomeno per cui la Corte Europea e le direttive della Commissione cercano di scardinare le legislazioni nazionali in materia di famiglia e vita, temi che peraltro non sono neanche competenza dell’Unione. Nell’articolo si sottolinea in particolare il ruolo svolto dalla lobby gay – trasversale a tutti i partiti – e dai giudici che usano le norme “anti-discriminazione” per rovesciare le legislazioni pro-famiglia.
Interessante notare che anche il Papa, nella sua visita in Puglia sabato e domenica scorsa abbia sottolineato nel suo discorso come la famiglia oggi «è esposta al convergente attacco di numerose forze che cercano di indebolirla».

Il Timone, 16 giugno 2008

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domenica 15 giugno 2008

Gli eurocrati ci impediscono di fare l’Europa

Il deficit di democrazia della UE non è un incidente, è lo strumento necessario per attuare il ricercato progetto per un’«Europa artificiale, emasculata, e soprattutto ‘mercato’ aperto per le multinazionali americane» evitando che una nazione Europa si sostituisse ai nazionalismi sconfitti e sorgesse un altro statista alla De Gaulle. Per questo i corpi elettorali di cittadini Francesi, Olandesi e da ultimi irlandesi non saranno ascoltati. La legittimità dell’inganno e della segretezza: è questa che proclamano i Napolitano e i Padoa Schioppa.

di Maurizio Blondet


Gli oligarchi-burocrati s’erano fatti una legge. La legge diceva: il trattato di Lisbona è privo di valore legale (null and void) se un solo Stato-membro non lo ratifica. Oggi che l’Irlanda ha rifiutato di ratificare, Napolitano sostiene che il Trattato di Lisbona resta in vigore, e la volontà di un solo Paese non conta nulla, perchè è piccolo. Già dimentico che anche Francia ed Olanda, Paesi fondatori, hanno detto no nel 2005.

Questo è il modo con cui lorsignori intendono la «legalità»: si rimangiano le loro stesse «norme». Piuttosto che dichiarare nullo il loro trattato, distillato a porte chiuse, dichiarano nulli i popoli. Ed ora, si riuniscono in settimana allo scopo di distillare un nuovo inghippo «legale» per imporre la loro volontà burocratica. Questo è il problema europeo.

L’Europa, 490 milioni di abitanti, potenza economica primaria, è tragicamente indebolita. Resta un’unione monetaria senza Stato nè sovranità (1), dunque incapace di proiettare il suo potere politico sul mondo: e ciò nel momento di una crisi storica epocale, segnata dal declino degli Stati Uniti come potenza egemone globale e l’emergere di potenze extra-europee ed extra-occidentali (o anti-occidentali) come Cina, Russia e India. Nel momento del cambiamento epocale, non siamo presenti nè capaci di parlare con una voce, e sovrana.

Ma la colpa non è degli irlandesi, come amano ripetere i Napolitano e gli altri nipoti massonici di Jean Monnet (2). La colpa è loro: di come hanno voluto fare l’Europa. Di nascosto.

«Come sottoprodotto tacito e quasi occultato», come scrisse Padoa Schioppa, di direttive e regolamenti distillati in stanze chiuse da funzionari che nessuno ha eletto. Hanno tentato un esperimento inaudito, creare un’entità politica all’insaputa del popolo, una sovranità fatta di amministratori occulti, nella illibertà, come congiura e doppiezza. Non ci si riuscirà mai. Ma loro insistono. E insistendo, impediscono la nascita dell’Europa di cui abbiamo bisogno.

Perchè, come ha notato persino il Financial Times, nè i francesi nè gli olandesi nè gli irlandesi sono anti-europeisti. Se hanno detto «no», lo hanno detto ad una direzione e a un metodo che non va nella giusta strada, che non capiscono e non approvano. Non hanno detto no all’Europa, ma ai Napolitano e ai Padoa Schioppa. Governata da banchieri ed oligarchi irresponsabili, che recitano su un copione dettato da altri poteri, extra-europei.

Per esempio: a che serve l’Unione Europea, se è aperta a tutti i venti della concorrenza globale, anzi se la Kommissione di Bruxelles ne ha fatto il cavallo di Troia della globalizzazione, che annulla il lavoro da noi per darlo ai cinesi?

De Gaulle evocò un’altra Europa: una «Europa delle patrie» libere e sovrane, e una «Fortezza europea» con alte mura contro l’invasione di merci straniere, dietro alle quali si salvassero posti di lavoro e competenze varie e preziose nella loro pluralità.

Questa idea di Europea non ha mai avuto la possibilità di esporsi, come alternativa, alla volontà popolare. Gli eurocrati per primi sanno che, per referendum, gli europei voterebbero eccome la «fortezza delle patrie» fraterne. Per questo hanno impedito che questa alternativa venisse anche solo a conoscenza della pubblica opinione; e si sono assicurati che nessun De Gaulle, ossia nessun grande statista con prestigio proprio e indipendenza di pensiero, emergesse al potere. Si sono allevati servi e maggiordomi, e ce li hanno dati da votare.

Un esempio di come lorsignori intendono il «governo» ci viene dal Telegraph che ricorda: dieci anni fa, quando l’Irlanda stava per entrare nell’euro, il capo della Bundesbank tedesca avvertì gli irlandesi di non aspettarsi pietà dalla Banca Centrale se fossero finiti nei guai. «La Banca Centrale Europea sarà cieca ai bisogni dell’Irlanda, e sorda alle grida di aiuto» (3).

Con questo programma da usurai - ciechi e sordi ai bisogni dei popoli - non si può creare una sovranità. La sovranità politica nasce nel modo esattamente contrario, come risposta ai bisogni. Altrimenti è dominio oligarchico: radicalmente illegittimo, e perciò con piedi d’argilla nelle crisi mondiali. Non si può chiedere ai popoli di combattere e sacrificarsi uniti per poteri ciechi e sordi. Persino gli oligarchi dovrebbero capire che c’è qui un errore ideologico, oltretutto sorpassato, inautentico.

Tale errore ideologico nacque nei circoli bancari americani - la Lazard di André Meyer, la Lehman Brothers di George Ball, la Commissione Trilaterale - che si appropriarono dei fondi (pagati dal contribuente USA) del Piano Marshall, ed affidarono ad uno di loro - Jean Monnet, il loro fiduciario bancario, mai presentatosi ad alcuna elezione - il compito di distribuire quei fondi. La loro idea da banchieri è che le guerre, in Europa, erano causate dalla esistenza di sovranità nazionali. E dunque, Monnet avrebbe offerto i soldi del piano Marshall in cambio di cessioni di sovranità da parte dei Paesi beneficiati.

La sua Comunità del Carbone e dall’Acciaio (CECA), il germe dell’eurocrazia oligarchica, nacque appunto così: l’esproprio della Ruhr carbonifero-metallurgica (antica contesa fra Francia e Germania, supposta causa delle guerre franco-tedesche dal 1870) ai francesi e ai tedeschi, per metterla sotto un Kommissar sovrannazionale.

I tedeschi erano disfatti ed occupati, amministrati da un generale americano e all’est, dai sovietici, e non poterono opporsi; Parigi era governata dalla massoneria radicale, guadagnata al progetto oligarchico per principio; entrambi avevano bisogno disperato dei soldi del piano Marshal per la ricostruzione. Monnet ebbe il gioco facile. «Dietro le quinte», come ebbe a dire. Come sempre.

L’errore - errore volontario, ideologico - era evidente, perchè già la Seconda Guerra Mondiale non era scoppiata per la Ruhr; era scoppiata su due visioni del mondo, la social-nazionale, e la collettivista-comunista. E nel primo blocco, quello grosso modo fascista, già s’era visto il germe di un’Europa delle patrie, di regimi indipendenti ma fraterni - e su una scala così vasta, che tutta la propaganda dei vincitori ha dovuto nasconderla alle nuove generazioni con una durissima «damnatio memoriae» demonizzante (4).

Ma non solo Germania e Italia, ma un’Europa che si estendeva dalla penisola iberica all’Ucraina, con romeni ed ungheresi, belgi e francesi, si schierò in quella guerra; e nel sangue si videro spagnoli e valloni e fiamminghi, e russi bianchi e svedesi, baltici e magiari combattere e sacrificarsi per una unità nascente - tanto disposti a combattere, che l’alleanza anglo-americana e sovietica dovette stroncarli con mezzi enormi e crudeltà senza limiti, riempiendo i gulag e i campi di prigionia occidentali. Oggi, almeno, sarebbe bene ricordarlo.

I vincitori dunque vollero un’«Europa artificiale, emasculata, e soprattutto ‘mercato’ aperto per le multinazionali americane». Perciò, fin dall’inizio, vollero sventare che una nazione Europa si sostituisse ai nazionalismi sconfitti.

«Il pubblico della maggior parte dei Paesi continua a vivere in un universo mentale che non esiste più: un mondo di nazioni separate», come si legge nel rapporto della Commissione Trilaterale 1973. Quel mondo di nazioni non esiste più, beninteso, per le multinazionali: quelle che già allora progettavano di spostare i fattori della produzione dove il costo del lavoro era più economico, e venderlo dove le merci spuntavano i prezzi più alti.

Come decretò George Ball (direttore della Lehman, l’ex Kuhn & Loeb, che aveva finanziato l’ascesa di Lenin in Russia), nel mondo disfatto dall’America, «tutti i fattori della produzione - capitali, manodopera, materie prime, impianti e distribuzione - devono essere resi assolutamente mobili secondo il concetto della massima efficienza. E ciò può avvenire soltanto quando i confini nazionali non giocheranno più alcun ruolo nel definire gli orizzonti economici».

Questo è esattamente il progetto per cui ha lavorato tutta la sua vita Napolitano, il «comunista» con visto permanente per gli USA fin dagli anni ‘50, ed «europeisti» come Ciampi e Padoa Schioppa, La Malfa e Malagodi, Gaetano Martino e Altiero Spinelli.

Il deficit di democrazia della UE non è un incidente, è lo strumento necessario per attuare questo progetto.

Anche questo, anche il metodo di esproprio della democrazia, i nostri Napolitano e Padoa Schioppa - che di pensare in proprio non hanno l’abitudine - l’hanno ricevuto dalla Trilateral e dal Council on Foreign Relations.

Samuel Huntington - lo stesso che più di recente ha lanciato la «guerra di civiltà», il nuovo credo anglo-bancario - lo spiegò chiaramente nella riunione della Trilaterale di Tokio, tenutasi il 30-31 maggio 1975: «La democrazia durerà di più se limitata», sancì (5). Ricordò i bei tempi in cui «Truman riuscì a governare con la cooperazione di un gruppo relativamente piccolo di avvocati e banchieri di Wall Street», come esempio di «democrazia funzionante». «L’operatività efficace di un sistema democratico esige un certo grado di apatia e non-coinvolgimento di gruppi e individui».

Il guaio, aggiunse, è che i corpi elettorali di cittadini, quando sono attivi, mettono in discussione «la legittimità della gerarchia (dei banchieri), della coercizione, della disciplina, della segretezza e dell’inganno, inevitabili attributi del processo di governo».

La legittimità dell’inganno e della segretezza: è questa che proclamano i Napolitano e i Padoa Schioppa.

Huntington istruì su come «moderare la democrazia: attraverso il controllo della stampa, la cooptazione dei capi sindacali, la tacitazione degli ‘intellettuali orientati ai valori’» anzichè al business. Il progetto è riuscito.

Questo è lo stato in cui ci hanno ridotto: ci lasciamo tosare e derubare da conventicole segrete che ci ingannano, la bandiera nazionale la mettiamo al balcone per le partite di calcio ed è un sinonimo di tifoseria, l’apatia e il non-coinvolgimento di massa - il nostro peggior nemico - è un dato di fatto, ottenuto a forza di pornografia e idiozia televisiva, consumismo dozzinale e ignoranza programmata e crescente, che risulta in particolarismi idioti e secessionismi corpuscolari. Così lorsignori possono lavorare in pace. E continuano a fare il mondo felice per le multinazionali.

Solo che questo mondo è morente: gli USA tramontano, comprati pezzo per pezzo dai fondi sovrani arabi e asiatici. Le alleanze vecchie di settant’anni - come la NATO - sono diventate dannose, sono reimpiegate per dementi guerre coloniali (oltretutto perdenti) e ci gravano addosso per impedirci nuove alleanze e nuove, necessarie fraternità. L’Europa deve avere una sua voce di fronte alla Russia ed alla Cina, ma invece parla - come il pupazzo di un ventroloquo - con la voce del padrone del 1945.

E’ urgente fare l’Europa politica. Proprio per questo, è urgente e necessario cacciare Napolitano, Padoa Schioppa, e i loro complici sub-sovrani.

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1) L’euro è a rischio di spaccatura (già potenzialmente visibile nella «forbice» tra i BOT tedeschi e quelli spagnoli e italiani) perchè l’UE non è una entità politica. Non ha infatti un ministero europeo del Tesoro, che negli Stati nazionali tende a pareggiare i ciclici alti e bassi nelle differenti regioni con trasferimenti fiscali, nè ha un’«unione del debito», a prevenire i rischi di insolvenza sovrana.
La Germania non tasserà i suoi cittadini per sostenere la Spagna in crisi, men che meno l’Italia.
Lo Stato va costituito «prima» della moneta. Ma Padoa Schioppa, il vero creatore dell’euro, ha escogitato di fare il contrario: con l’euro, «ondate di denaro» in libera circolazione per l’Europa, aveva previsto, provocheranno «inevitabili squilibri fra le regioni»; ciò sarà bene, perchè - immaginava - i capi dei governi nazionali correranno in ginocchio dagli eurocrati a cedere la loro sovranità, non riuscendo a dominare la crisi che l’euro provocherà, allora ci daranno la sovranità. (Padoa Schioppa, «Efficiency, Stability, Equity», 1987). E’ per questo che l’euro ci ha impoverito, l’hanno volute così. Con un solo tasso d’interesse uguale per tutti, hanno deliberatamente provocato la rovina di Paesi per cui questo tasso era troppo basso. In Irlanda, un tasso d’interesse tenuto per un decennio al 2% - negativo in termini reali - ha creato denaro facile, che è provocato un boom edilizio che oggi sta scoppiando (i prezzi immobiliari sono calati del 9%), e un indebitamento delle famiglie del 175% del PIL. Lo Stato irlandese è pesantemente indebitato con la zona euro. Lo stesso accade alla Spagna e all’Islanda. Ma gli irlandesi non sono corsi a inginocchiarsi davanti a Padoa Schioppa implorandolo di prendersi la loro sovranità; anzi, l’hanno usata contro «questa» Europa che non ha risposte per le loro disgrazie.

2) Napolitano è l’ultimo superstite di una infiltrazione «laico-borghese» (leggi: massonica) all’interno del PCI. Si dichiara allievo di Giorgio Amendola, altro «comunista» borghese a cui Napolitano ha attribuito il progetto che lui continua a perseguire, «la ricerca di una saldatura tra liberalismo e socialismo». Sic. Giorgio Amendola era un gobettiano, a suo dire «anticomunista arrabbiato» negli anni ‘30, quando scrisse la sua tesi di laurea sulle vendite rateali finanziate dal venditore (credito al consumo), allora sconosciute in Italia, cavallo di battaglia del liberismo economico americano. Aderì al PCI perchè il fascismo minacciava il trionfo della «economia classica anglosassone», quella di Adam Smith. Del resto, era figlio di Giovanni Amendola, aventiniano nel 1922, fondatore della rivista massonica «Il Mondo», e intimo dei circoli della Banca Commerciale. Già dal 1905 Amendola padre apparteneva alla loggia massonica Romagnosi di Roma. Frequentava la società Teosofica, dove conobbe la sua amante, l’ebrea occultista Eva Kuhn. Il terzo comunista-borghese fu Altiero Spinelli, il «federalista europeo». Spinelli si staccò dal PCI nel 1921 perchè il partito non era abbastanza «laico», per entrare nel gruppo ebraico antifascista laico di Ernesto Rossi, Eugenio Colorni e sua miglie Ursula Hirschmann; ma ritornò nel PCI nel 1976, quando il partito abbracciò «l’idea europea».

3) Ambrose Evans-Pritchard, «Ireland’s vote leaves the euro in limbo again», Telegraph, 14 giugno 2008.

4) Un solo esempio: Quisling, il capo del governo fascista norvegese, il cui nome è diventato sinonimo di vergogna collaborazionista, aveva ben chiaro il progetto alternativa in corso. Nel 1942 scrisse: «L’Europa, stretta fra i due colossi che le sono cresciuti accanto (USA liberisti ed URSS collettivista) si troverà in pericolo se non sarà unita in una stabile federazione di libere nazioni». Una federazione di libere nazioni: tale il progetto anche dell’antifascista De Gaulle.

5) Samuel Huntington, «Report on the governability of democracies», 1973. Si veda il mio «Complotti III», capitolo «Genealogia di Napolitano».

EFFEDIEFFE.com, 15 giugno 2008


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